L’invecchiamento che rigenera
Gli esperimenti di un gruppo di ricerca dell’Università di Galway su alcuni organismi marini permettono di comprendere più a fondo i meccanismi di senescenza cellulare, e di chiarire diversi misteri della rigenerazione.
La prima caratteristica che chiunque associa all’Idra di Lerna, la seconda fatica di Ercole, è sicuramente una grande capacità rigenerativa: quando privato di una delle sue teste, il mostro era in grado di rigenerarla (o ne rigenerava due, o tre, a seconda della versione del mito). Tuttavia, alla faccia dell’immaginazione umana, il mondo naturale ospita idre ancora più sorprendenti di quella che abita la leggenda.
Gli esemplari della specie Hydractinia simbiolongicarpus (strettamente imparentati alle specie del genere Hydra, che prendono il nome dal mostro di cui sopra) se privati della testa riescono a rigenerarla completamente, ma non solo: la testa stessa riesce a rigenerare l’intero organismo. Com’è possibile?
Per rispondere a questa domanda è necessario, in primo luogo, individuare tali organismi all’interno dell’albero della vita. H. simbiolongicarpus appartiene al gruppo degli cnidari, lo stesso che comprende meduse, coralli e anemoni di ogni sorta. Infatti, la struttura degli individui di questa specie è molto simile a quella di un generico anemone: sono costituiti di uno stelo cavo al cui termine si trova una testa irta di tentacoli.
Il professor Uri Frank e colleghi, osservando questi organismi nei laboratori dell’Università di Galway, in Irlanda, si sono accorti che la totalità delle loro cellule staminali pluripotenti risiede alla base dello stelo. Sono queste cellule che, potendo acquisire sia “qualità strutturali” che “qualità riproduttive”, fanno fronte ai danni che l’organismo subisce, o ne rinnovano i tessuti. È dunque facile comprendere come, a seguito dell’amputazione della testa, l’organismo riesca a rigenerarla completamente: le cellule staminali migrano dalla base dello stelo sino alla zona ferita e operano la rigenerazione. È molto più complicato capire, però, come faccia la sola testa mozzata, completamente priva di cellule staminali, a rigenerare completamente l’organismo.
Inizialmente, persino il prof. Frank ed il suo team erano increduli di fronte all’idea che la testa di H. simbiolongicarpus fosse priva di cellule staminali, ed hanno condotto diversi esperimenti per sincerarsene. Appurata l’assenza di tali cellule, i ricercatori hanno constatato che l’unico evento che avveniva nella testa degli organismi a seguito dell’amputazione, la chiave per spiegare il fenomeno, era la senescenza improvvisa delle cellule adiacenti alla ferita. Quando una cellula entra in fase di senescenza, acquisisce una caratteristica che viene definita SASP: Senescence Associated Secretory Phenotype. In altri termini, le cellule senescenti secernono molecole diverse rispetto alle altre cellule. Questi composti sono in grado di “trasformare” le cellule che ne entrano in contatto in cellule staminali. La testa mozzata di H. simbiolongicarpus si riempie così di cellule staminali che portano alla rigenerazione dell’organismo.
Un dettaglio interessante da sottolineare è che l’organismo in formazione deve liberarsi il prima possibile delle cellule senescenti poiché, alla luce della loro abilità nel “trasformare” le cellule vicine, se rimanessero nell’organismo per troppo tempo finirebbero per convertire in staminali più cellule del necessario, con evidenti rischi per l’animale. Per questo motivo, tra le 33 e le 38 ore dopo la decapitazione, la testa mozzata espelle tutte le cellule senescenti che la abitano.
Gli esperimenti su H. simbiolongicarpus, hanno permesso al prof. Frank e colleghi di trarre delle conclusioni molto interessanti: a loro dire, la comparsa della senescenza cellulare nel corso dell’evoluzione ha consentito agli organismi con elevata plasticità cellulare di far fronte a danneggiamenti di varia intensità. Cioè, organismi con cellule facilmente “trasformabili” hanno utilizzato, e utilizzano, la senescenza come innesco dei meccanismi di rigenerazione che vengono portati a termine dalle cellule staminali. Purtroppo però, per organismi a bassa plasticità cellulare, come H. sapiens, questo meccanismo non è altrettanto utile poiché minerebbe la stabilità delle strutture che ne garantiscono la sopravvivenza. Ciò nonostante, gli esperimenti del prof. Frank e del suo team offrono alla nostra specie l’opportunità di comprendere più a fondo i segreti della senescenza cellulare, cosa che, in tempi nei quali la popolazione del mondo occidentale invecchia sempre di più, può risultare molto utile.