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Matassa

25 Ottobre 2022

Se si ha a che fare con l’Iran, per appartenenza nazionale, per nascita, per turismo, per amore, per interesse, per motivi di studio o per più d’uno di questi motivi, si avrà la sensazione di avere davanti una grande matassa, impossibile da sbrogliare.

Edgar Morin aveva descritto la complessità come la trama di un tappeto: si ammira il disegno finale, ma la vera abilità per capirla sta nell’individuare e tracciare il singolo filo che, unito agli altri, dà come risultato proprio quel particolare disegno.

Ebbene, riuscire a vedere i singoli fili nell’Iran di oggi è impossibile. Provare a districare la matassa è un’impresa ardua.

Ci sono state in queste settimane persone che protestavano nei contesti più diversi: all’università Sharif di Tehran,  dove la polizia ha buttato gas lacrimogeni contro gli studenti, bloccandoli all’interno del campus universitario; a Zahedan nel Sistan e Baluchistan, dove c’è stato un vero e proprio linciaggio di militari e soldati da parte della folla inferocita;  ad Ardebil nell’Azerbaijan persiano, dove (proprio mentre scrivo 17 Ottobre 2022 ndr), è morta un’altra studentessa durante le proteste: insomma si tratta di luoghi e contesti diversi- università, piazze, strade, megalopoli e piccole cittadine- in un Paese che  è gigantesco, grande otto volte l’Italia e molto diversificato al suo interno per clima, risorse e composizione etnica e sociale.

Dunque, qual è il filo conduttore che unisce le proteste di queste settimane, innescate dalla morte di Mahsa Amini? Possiamo arrivare, seguendone i fili, al disegno finale del tappeto?

  1. Canto i veli e le donne

Non tutto ha inizio dal velo (hejab), eppure il velo è l’estremità di uno dei nostri fili: l’incipit della storia, come “le armi e gli uomini” dell’Iliade. A luglio del 2022 nella moderna e gigantesca Tehran era già consolidato una sorta di movimento sociale e culturale nuovo, tutto al femminile, che aveva in nuce alcune caratteristiche delle proteste di questi giorni: si chiamava in farsi “bihejabi” che vuol dire “senza velo”. Consisteva nella presenza casuale ma sempre più frequente (soprattutto nei parchi e nelle piazze) di ragazze senza velo o con il velo abbassato.  Giovani e meno giovani camminavano tranquille, come se niente fosse e se non ci fosse l’obbligo di coprirsi i capelli dal 1982.

Per me, che tornavo in Iran dopo tre anni, era una novità assoluta ed è stato facile adottare questo nuovo costume: diventare, cioè, Bihejabi.

Di solito per noi esseri umani non c’è nulla che funzioni in modo più efficace del processo mimetico: più ragazze vedevo senza velo, più mi veniva voglia o mi sentivo sicura di poterlo abbassare e così, a catena.

Poi, in un caffè, una giovane ex- bihejabi ci ha chiesto con gentilezza di tirarlo su perché in quel locale la polizia morale aveva fatto delle maxi multe per colpa dei veli abbassati. E così, per tutto quel periodo estivo, il velo è stato in continuo movimento: sui capelli e giù dai capelli, a seconda dell’aria che tirava.

E non tirava un’aria buona.

Al movimento bihejabi si contrapponeva infatti il movimento “bahejabi” (con il velo) in quegli stessi giorni di luglio.  Si trattava di donne e uomini che sostanzialmente manifestavano a favore del velo.  Nella città di Mashad, squadre femminili di poliziotte della moralità distribuivano cioccolatini alle donne ben velate. Mia cugina, che stava facendo la spesa in bicicletta, ha ricevuto complimenti per il suo velo e delle caramelle. “Tenetevele e lasciate in pace la gente” ha detto lei pedalando in fretta e furia verso casa.

  1. Capitalismo Islamico

Un altro dei nostri fili che si intersecano per disegnare le proteste di questi giorni emerge guardandosi intorno. Non esistono città che siano grandi, medie o villaggi, che non abbiano visto la fortuna di pochi e la miseria di molti, specie in questi anni. In Iran, per sopravvivere (se non si hanno ricchezze accumulate grazie alla rivoluzione o possedute già prima della rivoluzione) bisogna ormai fare tre, forse quattro lavori. L’amico Davood insegna ingegneria all’Università di Tehran, fa il giornalista e prima della pandemia faceva anche la guida turistica. Come lui sono tantissimi ragazzi, adulti e persone di mezza età che si trovano in questa condizione.

Per questo motivo, la scorsa primavera il paese è stato scosso dalle proteste degli insegnanti in pensione, che avendo un solo reddito, non riuscivano più ad acquistare i beni primari. La maggior parte dei manifestanti è stata arrestata, anche in quel caso da parte del governo non c’è stato alcun tentativo di venire incontro alle persone.

La verità è che la maggior parte degli iraniani sa che se la rivoluzione del 1979 era poi divenuta “islamica”, questo è stato possibile anche grazie ad un’idea di giustizia sociale che pervadeva un po’ tutti gli scritti di uno dei suoi massimi leader carismatici, l’Imam Khomeini. Non ci sarebbe nemmeno mai stata un’ideologia islamista senza quella spinta a immaginare una società più equa, anche perché regolata dalla religione: la “rivoluzione degli ultimi” era proprio la promessa di un rovesciamento dei privilegi di pochi a favore di una società più giusta e una più equilibrata distribuzione delle risorse.

A 44 anni da quella rivoluzione, però, l’Iran appare essere un Paese neoliberista esattamente come lo sono gli Stati Uniti: con tante persone che sono indigenti e una minoranza di ricchissimi.  Bisogna avere soldi per curarsi, bisogna avere soldi per fare qualsiasi cosa. La maggior parte di chi ha soldi, poi, finisce per andarsene all’estero e proprio negli Stati Uniti.

  1. Disastri ambientali

L’ultimo filo che provo a seguire in questa trama intricata è quello ambientale. È strettamente intrecciato a quello economico, ma ha una sua identità caratterizzante. A Rasht, sempre a luglio, decine di ragazzi e ragazze si sono trovati nella piazza centrale, vestiti da ciclisti, per promuovere una più sostenibile idea di città, considerato che tutti i centri urbani iraniani sono mediamente molto trafficati e pochi coraggiosi riescono ad avventurarsi per le strade in bici.  I ragazzi avevano cartelli ambientalisti sul modello di Greta Thunberg. Ma questa è solo la punta dell’Iceberg.

La primavera scorsa erano in migliaia a protestare a Shahrekord per la mancanza d’acqua, cantando lo slogan ormai noto: “marg be dictator”! (morte al dittatore).  L’area sud-occidentale dell’Iran non ha mai avuto problemi di approvvigionamento d’acqua, ma le inondazioni degli ultimi anni, unite alla decisione del governo di deviare ed esportare l’acqua della zona per irrigare soprattutto campi di pistacchio e zafferano di grandi proprietari terrieri (tra cui anche figure religiose), destinati all’esportazione o al mercato del lusso, hanno dato come risultato una siccità mai vista prima.

Anche in quel caso, il governo non ha dato alcuna risposta.

Questi sono solo alcuni dei fili più evidenti, che riesco a intravvedere in questa trama il cui disegno è un continuo stato di destabilizzazione e violenza nel Paese.

Ce ne saranno sicuramente tanti che mi sfuggono, ma oltre ad avere davanti una matassa, negli ultimi tempi chi ha a che fare con l’Iran percepisce anche uno stato di costante tensione. Sotto le spinte globaliste dei centri urbani e davanti alle grandi sfide planetarie, la Repubblica Islamica prova a resistere immutata con la sola forza bruta.

Ma tutto ciò che si irrigidisce, nella complessità, ha vita breve.

Così, persino il processo dell’evoluzione della specie ci insegna che solo i sistemi flessibili riescono ad adattarsi e sopravvivere.

Il resto, è storia.


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