Mobility Story: Paolo Costa
Paolo Costa è ricercatore presso l’Istituto per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler. Ha alle spalle tre Mobility Program, l’ultimo concluso da poco. Tutti a Vienna, tutti in qualche modo diversi, ma ognuno vissuto come un “prezioso incentivo alla mobilità mentale, al dinamismo intellettuale”.
L’ultima esperienza – svolta in due istituzioni della capitale austriaca, l’Università e I’Istituto per le Scienze Umane (IWM), “una sorta di Mobility all’interno del Mobility” – è servita tra le altre cose per chiudere un cerchio. “Il mio principale obiettivo – osserva lo studioso – era portare a compimento un lavoro di ricerca aperto nei primi due soggiorni. Il risultato è un libro sull’idea di secolarizzazione – o, come si preferisce dire in Italia, “laicità” – che conto di completare entro l’anno. Allo stesso, tempo, però, volevo cominciare a esplorare nuovi orizzonti. Stavo covando alcune idee sul rapporto che esiste oggi tra spiritualità e montagna e, dopo averle discusse con colleghi di diverse provenienze geografiche e disciplinari, mi sono convinto che il progetto ha delle potenzialità. Non appena avrò finito il libro, spero di potermi immergere in questa nuova avventura intellettuale”.
Paolo, hai appena concluso il tuo terzo Mobility. Se volessi descriverlo, cosa rappresenta per te questa esperienza?
Partirei dalle ragioni che ti spingono a investire in un progetto che si chiama, non a caso, “Mobility”. Personalmente interpreto la parola e l’esperienza del Mobility in senso ampio. Effettivamente ciò che mi è sempre accaduto spostandomi è sperimentare un senso di mobilità totale. Ciò avviene sia a livello fisico-spaziale, perché ci si sposta effettivamente in un altro luogo, ma anche e soprattutto in senso metaforico, in quanto inevitabilmente si rendono mobili il proprio modo di pensare, i propri ragionamenti e le proprie idee.
Ed è ciò di cui le professioni intellettuali hanno bisogno, in modo quasi vitale direi: esplorare, confrontarsi, cambiare prospettiva.
Inevitabilmente, durante l’esperienza questi due piani, quello fisico e metaforico, finiscono per sovrapporsi diventando un tutt’uno. Ti sposti spazialmente, incontri studiosi provenienti da altri contesti, in un ambiente a sua volta nuovo. Il beneficio maggiore è che si finisce per incorporare nuovi punti di vista e prospettive diverse dalle tue, che la sola attività di lettura e ricerca probabilmente non ti avrebbero mai dischiuso.
Il rischio di rannicchiarsi un po’ nei propri modi di pensare abituali, di non riuscire più a vedere altre vie, è sempre in agguato. Lo scossone mentale prodotto dal Mobility disinnesca questo rischio e apre nuove prospettive, offrendo nuovi spunti. E i nuovi input possono arrivare in ogni momento, anche semplicemente andando a pranzo con i colleghi.
È per queste ragioni che hai scelto di partire nuovamente in Mobility?
Anche. Sono alla mia terza esperienza, sempre a Vienna. Già le prime due si erano rivelate molto positive da molti punti di vista e mi avevano offerto, oltre alla possibilità di confrontarmi con altri studiosi, quella mobilità mentale di cui parlavo prima.
Oltre alla mobilità, poi, c’è però anche la stabilità dei legami. Con il tempo, il lavoro e la costanza, ho avuto modo di intessere relazioni e rapporti che si sono progressivamente consolidati. Tornare nella stessa istituzione significa diventare parte di una comunità, di una famiglia. E queste cose contano. Per questa ragione cerco sempre di coniugare continuità e discontinuità nei miei soggiorni a Vienna. Il “setting”, il contesto, dev’essere un po’ familiare e un po’ no. Bisogna sentirsi a casa, ma anche un po’ spaesati. Secondo me questo mix è il vero segreto della creatività intellettuale.
La particolarità di quest’ultimo Mobility, rispetto ai primi due, è che l’ho svolto presso due istituzioni, entrambe prestigiose, ma diverse. La sensazione che ne ho tratto è di un ulteriore aumento del “dinamismo intellettuale”, una sorta di Mobility nel Mobility. Avevo due uffici in due parti diverse della città. Colleghi diversi. Differenti stili di lavoro, ma lo stesso livello di ospitalità e friendliness. Tornarci con alle spalle due esperienze ovviamente ha reso le cose molto più semplici. Senza problemi di adattamento, anche la produttività ne ha beneficiato.
Di cosa ti sei occupato nei tuoi mesi a Vienna?
In ogni soggiorno, oltre all’iniezione di mobilità intellettuale, mi pongo sempre anche degli obiettivi specifici. Quest’anno mi premeva chiarirmi le idee sul tema della Religion Unmusicality. È una bella espressione inglese (e anche tedesca) che in italiano potrebbe essere tradotta come insensibilità religiosa. Serve a descrivere l’atteggiamento di quelle persone – e sono sempre più nella nostra società – che non hanno sentimenti ostili verso la religione, ma semplicemente non riescono a capire cosa spinga altre persone ad aderire a una religione, a credere ai suoi dogmi e a partecipare ai suoi riti. Diciamo che non hanno l’orecchio per queste cose.
Se nel mio progetto precedente mi ero occupato del declino della religione nella modernità, della secolarizzazione, in questo Mobility mi sono occupato soprattutto dell’origine di questa metafora della Religion Unmusicality, di come le persone la intendono, degli usi che ne fanno e della sua compatibilità con altre visioni della esperienza religiosa. Davvero tutte le persone che si dichiarano insensibili alla religione lo sono veramente o lo fanno soltanto per essere lasciate libere di sperimentare la loro forma personale di spiritualità?
Come puoi capire, ho chiuso veramente un cerchio. Lavorare sulla Religious Unmusicality mi ha dato lo spunto per riflettere sugli esiti della secolarizzazione e sul reale significato del presunto declino della religione nella modernità. Così, intuizioni nate in passato si sono mescolate con nuove chiavi di lettura, e la fine di un progetto si è affacciata su un nuovo filone di ricerca che spero di continuare a esplorare nei prossimi anni. Evidentemente, per compiere un’operazione così acrobatica è necessario il confronto con altri studiosi. Presentare e condividere i frutti del proprio lavoro, specialmente se i feedback sono positivi, è un aspetto impagabile del nostro lavoro. Questa chiusura produttiva del cerchio ha reso ovviamente ancor più entusiasmante il mio soggiorno a Vienna.
In che modo può incidere, se incide, un’esperienza come questa nella vita e nel lavoro di uno studioso?
L’esperienza del Mobility, e delle relazioni che ne conseguono, incide fondamentalmente su due livelli: sul ricercatore che vi partecipa e, indirettamente, anche sulla Fondazione.
Ciò che accade, stando alle mie esperienze, è che si utilizza il tempo sia per crescere individualmente come ricercatore sia per creare le premesse per avviare possibili collaborazioni istituzionali.
Per uno studioso andare altrove significa anche lavorare per conquistarsi quella reputazione che è la condizione necessaria per guadagnare l’attenzione delle persone con cui potresti avere interesse a collaborare in futuro. A questo scopo occorre impegnarsi per farsi conoscere e apprezzare in nuovi ambienti, magari anche sfatando, è inutile nasconderselo, qualche stereotipo.
Ovviamente è un processo che richiede tempo e, come ho detto, l’essere andato più volte in Mobility nella stessa istituzione mi ha certamente aiutato a raggiungere questo obiettivo.
Accanto a ciò, c’è tutta un’attività di “promozione” più o meno diretta dell’istituto cui si appartiene: si intessono relazioni personali che poi sono utili anche alla stessa Fondazione.
Per quanto mi riguarda, nelle mie esperienze ho sempre tentato di creare i presupposti per un confronto su alcuni aspetti e forme di know-how su cui a Vienna sono molto forti, come ad esempio l’autofinanziamento, ma anche l’aspetto organizzativo o il modo di progettare il futuro. Credo ci possa essere molto da imparare. Mi piacerebbe e spero che presto possa nascere una collaborazione istituzionale più strutturata tra le realtà che hanno collaborato per il mio Mobility.
Dovessi consigliare a un/a collega il Mobility, che cosa gli o le diresti?
Lo consiglierei calorosamente. È un’iniziativa della Fondazione che ho sempre trovato apprezzabile. Lungimirante, direi. Come per ogni esperienza umana vanno messi in conto sia gli aspetti positivi che quelli negativi. E come in qualsiasi altra scelta impegnativa ci devono essere dietro delle motivazioni forti, soprattutto la consapevolezza che sarà anche un’occasione per mettersi alla prova.
Se si vuole fare il Mobility è indispensabile un’attitudine esplorativa. Per usare un’immagine cara ai biologi, la mobilità, il dinamismo, possono essere una strategia di sopravvivenza. Ma ce ne sono altre, meno dispendiose, ad esempio il rannicchiarsi a riccio per difendersi. Dipende dalle attitudini di ciascuno. Sono tante le cose da considerare.
Poi è anche possibile che chi ha ideato il Mobility avesse in mente qualcosa di più ambizioso, che pensasse cioè il viaggio come una spinta alla mobilità professionale per i ricercatori. In un contesto ideale questo obiettivo sarebbe anche logico, ma in un contesto a risorse scarse come quello delle Humanities è quasi impossibile creare nuove opportunità professionali in così poco tempo. Il più delle volte ci si accontenta di qualcosa di meno, che comunque non è poco. In termini di possibilità di collaborazione e conoscenze (anche di ambienti), il Mobility rappresenta una grande opportunità di crescita, anche professionale. Semplicemente si matura come persone, come esseri umani.
Poi, come si dice, non esistono pasti gratis. Ognuno, chiaramente, è chiamato a fare i conti con le proprie situazioni personali e a fare un bilancio complessivo tra le esigenze private e la sfera professionale, ponderando le proprie scelte in base ad esso. Vienna, nel mio caso, aveva anche il vantaggio di non essere una destinazione così lontana da impedirmi di tornare ogni tanto durante il weekend per passare qualche giorno con la mia famiglia. Questo è un aspetto essenziale. Mi è costato qualche viaggio notturno in treno, ma ha reso l’esperienza ancora più avventurosa. Mi ha ringiovanito. In fondo, il treno è lo stesso che prendevo a vent’anni quando non avevo il becco di un quattrino!
Qualcosa in cantiere?
Come ti dicevo, il mio obiettivo più immediato è pubblicare il libro in cui confluiranno le mie ricerche pluriennali sulla secolarizzazione. Subito dopo conto di ricavare qualcosa dalle mie riflessioni sulla Religious Unmusicality. Nel mio Centro abbiamo aperto un progetto di ricerca intitolato Arguing Religion, in cui la mia riflessione su questa particolare strategia di accomodamento della pluralità spirituale si inserisce bene.
In un orizzonte più ampio, c’è la linea di ricerca sulle nuove forme di spiritualità. Recentemente la lettura del romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne mi ha convinto che ci sia qualcosa di significativo da indagare nel rapporto che le persone intrattengono oggi con la montagna. Trento mi sembra la città giusta per provare a gettare un ponte tra l’esperienza delle persone e la teoria. Speriamo che il progetto vada in porto. Anche se, visto il tema, l’espressione giusta dovrebbe essere forse un’altra. Meglio “speriamo che arrivi in vetta”, allora.