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Una lezione di Charles Taylor sulla democrazia. Che cosa fanno i nostri “Maestri” per noi?

23 Gennaio 2023

Molti hanno l’impressione che la democrazia non goda di buona salute oggi in Occidente. Un maestro del nostro tempo, il filosofo canadese Charles Taylor, ha provato a spiegare quali sono le cause e quali le possibili soluzioni di questa crisi.

Giovedì 12 gennaio 2023, nell’Aula Kessler del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Trento, il filosofo canadese Charles Taylor ha tenuto una lezione sul tema «Degenerations of Democracy». Di fronte a una platea gremita e variegata, l’ormai novantunenne autore di almeno tre classici della filosofia del Novecento come Sources of the Self (1989), The Ethics of Authenticity (1992) e A Secular Age (2007) ha dedicato il suo intervento al passato, presente e futuro di uno dei beni per antonomasia della civiltà moderna: l’autogoverno democratico.

Dopo aver ricordato che la democrazia, per sua stessa natura, non è una condizione stabile, ma un processo soggetto a oscillazioni costanti tra fasi di fioritura e periodi di declino, Taylor ha concentrato la sua attenzione su un apparente paradosso. Perché, malgrado la sensazione diffusa che dopo i Trente Glorieuses (1945-1975) si sia significativamente inceppato il processo di espansione e inclusione democratica (provocando quello che egli con un’espressione efficace ha definito il «Great Downgrade»), ciò non ha portato a una mobilitazione popolare in favore degli ideali che stanno alla base del democratic self-rule? E come mai l’effetto generale è stato piuttosto un’ondata di apatia e disaffezione a cui è seguita una virulenta polarizzazione dell’opinione pubblica che sta erodendo le fondamenta stesse delle istituzioni repubblicane anche nelle democrazie di più antica data, come quella statunitense?

Secondo il filosofo canadese, all’origine della diffusione a macchia d’olio di tale senso d’impotenza e abulia politica vi è un profondo cambiamento di mentalità. A mutare drasticamente è stata anzitutto la visione delle forze responsabili del mutamento storico. In particolare, la centralità reale e simbolica del Mercato come sistema autonomo di regolazione dei comportamenti individuali ha ridotto progressivamente la fiducia delle persone nell’efficacia dell’azione collettiva. In questo modo, è cresciuto esponenzialmente in individui sempre più isolati dai propri concittadini il senso dell’opacità dei meccanismi che governano in maniera ferrea le vite della gente comune al di fuori della sfera domestica dei legami, sentimenti, piani di vita privati. Questa condizione di debolezza, infine, ha esacerbato i conflitti intorno alle identità collettive o nazionali, che sono da sempre una delle cause dell’instabilità di comunità d’azione che non possono prescindere da forti legami di solidarietà tra estranei.

Negli ultimi decenni sono state soprattutto le fibrillazioni sociali prodotte dall’emigrazione transnazionale e le aspre lotte per il riconoscimento innescate dalla crisi dei meccanismi «meritocratici» di inclusione gerarchica nelle élites (si pensi solo all’esplosione della questione femminile) a rendere ancora più urgente una risposta rapida ed efficace a una simile crisi di fiducia nelle virtù delle democrazie liberali. In controtendenza rispetto all’opinione generale oggi, secondo Taylor tale risposta non potrà avvenire senza una rivoluzione etica. Soltanto un cambiamento di questa portata è infatti in grado di rinfocolare nelle persone la fiducia nel fatto che possa esistere da qualche parte una via d’uscita solidale dalla polarizzazione socio-politica che non rappresenti il trionfo di una fazione sull’altra, ma dischiuda un orizzonte storicamente inedito da cui tutti avrebbero potenzialmente qualcosa da guadagnare.

Per Taylor un esempio insuperabile di questo tipo di fiducia generativa è la scommessa politica di Martin Luther King sul potere liberante dell’emancipazione collettiva dal fardello d’odio con cui il razzismo verso gli afroamericani ha avvelenato fin dalle origini il funzionamento della democrazia americana. Germi di un’analoga conversione del cuore e della mente sono incapsulati, a suo avviso, nella fiducia istintiva delle giovani generazioni nella capacità della diversità umana di arricchire la vita di tutti. Ed è proprio questa convinzione a nutrire quello che Taylor ha descritto alla fine del talk come il suo «sconsiderato ottimismo».

Charles Taylor è la cosa più simile a un premio Nobel per la Filosofia che si possa incontrare ai nostri giorni. La sua statura intellettuale ricorda quella di altri monumenti della filosofia della seconda metà del Novecento come John Rawls, Jürgen Habermas, Paul Ricoeur. Il successo della Lecture organizzata dal Centro per le Scienze Religiose di FBK in collaborazione con i Dipartimenti di Sociologia e Ricerca sociale e di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento non si spiega, tuttavia, solo con il suo status di celebrity. L’impressione è, piuttosto, che una riflessione di ampio respiro come quella sviluppata dal filosofo di Montreal risponda a un’esigenza intellettuale specifica che vorrei descrivere provvisoriamente qui come il bisogno di «maestri».

Non è anacronistico, però, supporre che nell’odierna sterminata comunità scientifica globale, le cui procedure mirano a produrre scampoli di conoscenza il più possibile obiettivi e spersonalizzati, vi sia ancora spazio per una forma di sapere che, all’apparenza, ha più il valore della testimonianza personale che quello di un’evidenza empirica replicabile a piacere?

Al di là dell’omaggio cerimoniale che dai tempi di Newton viene reso ai «giganti» sulle cui spalle poggerebbero i «nani» che, nondimeno, hanno avuto in premio dalla sorte la capacità di vedere più lontano di loro grazie alla cumulatività della conoscenza scientifica, il punto è capire se vi sia una performance cognitiva specifica che pretendiamo dai nostri «maestri» metaforici in virtù dei doni insostituibili che i nostri maestri reali ci hanno elargito in momenti decisivi del nostro sviluppo intellettuale. La tesi che vorrei sostenere in conclusione è che una prestazione epistemica esemplare di questo genere effettivamente esista e svolga ancora un ruolo fondamentale nei processi di apprendimento degli studiosi di professione. La descriverei, in sintesi, come un esercizio supplementare (e supererogatorio) di riflessività, con cui chi può fregiarsi del titolo di «maestro» riesce a raggiungere traguardi che alla maggioranza di noi, a dispetto dei nostri talenti, il più delle volte sfuggono. Mi riferisco in particolare a quello shift gestaltico che, in qualche raro caso, è in grado di trasformare un dettagliatissimo sapere dei margini nel riconoscimento di una verità cruciale per le nostre esistenze.

Più che una forma di conoscenza in senso stretto siamo posti di fronte, qui, a una presa d’atto molto simile al riconoscimento di un volto. Ho in mente, nello specifico, lo straordinario effetto motivante che i volti hanno su persone che sperimentano di continuo nelle loro vite lo strutturale deficit motivazionale tipico delle convinzioni e credenze impersonali.

Non stupisce, quindi, che la sensibilità per l’importanza dei «maestri» nelle nostre vite possa acutizzarsi in un momento storico in cui società sempre più basate sulla conoscenza sono costrette a misurarsi con sfide epocali di fronte alle quali anche scienziati e scienziate provano sempre più spesso un senso di sgomento, impotenza e frustrazione, che rischia di alienarli pericolosamente dal bene irrinunciabile dell’autogoverno democratico.

Per ripristinare l’alleanza tra conoscenza e speranza servono effettivamente testimonianze che ci persuadano senza sforzo del valore in sé di beni che hanno il dono di renderci ricchi senza togliere nulla agli altri. Chi ha dedicato la propria vita alla ricerca della verità dovrebbe esserne già convinto, ma gli ideali sono notoriamente beni fragili su questo pianeta. Fragili, sì, ma non impotenti. È questa la principale lezione di vita e cultura che ricaviamo dai nostri maestri.


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