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Epidemie e Rinascimento

3 Giugno 2020

Spaesamento, fragilità e incertezza. Queste sono le sensazioni provate da molti di noi durante il periodo di lockdown imposto per fronteggiare la pandemia del Covid-19. In pochissimo tempo, molte delle sicurezze su cui si fonda la nostra società sono venute a cadere, l’una dopo l’altra. La reazione naturale dello storico è quella di cercare rifugio nel passato, per trovare la necessaria distanza con cui osservare gli eventi drammatici, e solo all’apparenza unici, del presente.

Se è vero che la storia non impartisce lezioni e non aiuta a predire il futuro, è tuttavia essenziale per collocare in una prospettiva più ampia la realtà che ci circonda e dunque anche per interpretare le crisi che la attraversano. Come studioso del Rinascimento, il pensiero è corso alle pestilenze che colpirono la penisola, dalla peste Nera del ‘300 raccontata da Boccaccio a quella manzoniana del ‘600, provocando milioni di morti. Sin dai primi annunci delle autorità, è parso evidente non solo che le misure di contrasto adottate per arginare la diffusione del Covid-19 avessero molte analogie con quelle messe in atto alcuni secoli fa dalle città italiane per il contenimento delle epidemie di peste, ma anche le reazioni degli individui non fossero poi molto diverse.

Venezia immobile Allora, come oggi, alcune delle più dinamiche città d’Europa si arrestano completamente per arginare l’epidemia. Nel 1575, a Venezia, la grande metropoli cosmopolita rinascimentale, sono proibiti assembramenti, feste, banchetti e spettacoli pubblici. Locande e taverne, affollate fino all’ultimo, sono costrette alla chiusura. Il Carnevale viene cancellato, così come le cerimonie religiose, comprese esequie e matrimoni.
Il vibrante centro internazionale del commercio e del transito, si ritrova improvvisamente immobile, isolato e deserto. Il silenzio spettrale che l’avvolge colpisce l’immaginazione del notaio Rocco Benedetti, che vaga per le calli veneziane per vergare i testamenti dei moribondi e si dice “trasognato di andar smarito nel mezzo del silenzio della notte per luoghi ermi e selvaggi”. Spaesamento, fragilità e incertezza

Il ritorno della peste

Sin dal ritorno della peste in Europa nel ‘300, la posizione dell’Italia come snodo commerciale e delle rotte dei viaggiatori l’aveva esposta ripetutamente ai contagi. I medesimi fattori che avevano reso le città italiane tra le più prospere e creative comunità del Rinascimento – il movimento delle persone e con esse di beni, denaro, idee e innovazioni – le resero particolarmente vulnerabili alla diffusione delle epidemie. Un destino che le accomuna alle grandi città contemporanee colpite dall’epidemia di coronavirus, come Milano o New York, anch’esse al centro di network globali di comunicazione, commercio e mobilità.

Sanità pubblica ed emergenza

A fronte di un pericolo ricorrente, gli Stati italiani del Rinascimento svilupparono consolidati protocolli d’intervento e strumenti per erigere barriere sanitarie in tempi di contagio. Tanto da divenire nel ‘500 un modello per l’Europa e il Mediterraneo nella gestione delle emergenze epidemiche.
Furono introdotte rigorose misure di controllo della mobilità: chiusure di porti e frontiere, restrizioni nell’accesso, provvedimenti di quarantena e bandi nei confronti di singole comunità (città o stati) o categorie di individui (forestieri, vagabondi e pellegrini).
A Venezia fu instituito il primo ospedale permanente per la peste al mondo, il Lazzaretto Vecchio (1423). Il modello del Lazzaretto per l’isolamento e la cura dei contagiati fu adottato in diversi centri dell’Italia settentrionale –Padova, Brescia, Bergamo, oltre all’imponente edificio eretto a Milano- e poi nel resto d’Europa solo a partire dal ‘600.
Furono create magistrature permanenti dedicate alla gestione della sanità pubblica. L’ufficio del Magistrato di Sanità o i Provveditori alla sanità, avevano compiti di controllo dell’igiene pubblica, di prevenzione e di coordinamento nella gestione dell’emergenza.
Invenzione italiana furono anche le Fedi di Sanità, certificati che permettevano la circolazione di individui garantendone la provenienza da luoghi non infetti. Questi documenti furono tra le prime forme di identificazione per regolare la mobilità, precursori dei moderni passaporti e carte d’Identità.
Queste misure continueranno a essere essenziali nella lotta alle pandemie nei secoli successivi, dal colera, all’influenza ‘spagnola’, fino al Covid-19.

Media e fake news

Gli Stati italiani erano all’avanguardia anche in un’altra battaglia: il controllo della comunicazione. Combattere la trasmissione delle epidemie significava anche raccogliere informazioni sui possibili focolai, avvalersi di spie, distinguere il falso dal vero, talvolta manipolare le notizie, minimizzando la portata del contagio nei propri territori per non danneggiare l’economia.
Era inoltre necessario gestire l’informazione pubblica. Proclami affissi sui muri e letti ad alta voce dai banditori, comunicavano agli abitanti i decreti del governo per sanzionare comportamenti inadeguati. Mantenere il distanziamento sociale era un problema già al tempo. Nelle ordinanze delle magistrature milanesi nel 1576, ad esempio, donne e bambini erano invitati a rispettare le regole della quarantena, a rimanere in casa e non andare “vagando per la città, e nelle case altrui immischiandosi l’uno con l’altro”.
Le autorità cercarono poi di ridimensionare la circolazione di false notizie e l’offerta di rimedi miracolosi. All’apice del contagio, medici improvvisati pubblicizzavano cure improbabili per proteggersi dalla peste. Come un ciarlatano fiammingo che nel 1575 si offrì di liberare Venezia dal morbo, con una ricetta che prescriveva di bere la propria urina al mattino e applicare dello sterco sui bubboni.

Crisi

Pur nella sua modernità, il sistema sanitario messo in atto non era perfetto. Le magistrature sanitarie erano indebolite da vizi endemici che caratterizzavano la burocrazia italiana della prima modernità: corruzione, mancanza di fondi e inefficienze. L’esplosione violenta del contagio metteva in crisi il sistema che scontava problemi analoghi all’oggi: carenza di spazi ospedalieri e mancanza di personale.
Nel 1576, al picco dell’epidemia di peste, a Venezia furono allestiti ospedali provvisori utilizzando vecchie galee, tende e baracche. Mentre il Lazzaretto Vecchio si trovò ad ospitare dagli 8 ai 10 mila pazienti. I contemporanei lo descrivevano come un inferno, in cui continuamente risuonavano i gemiti dei malati, ammassati “tre o quattro per letto” e costretti a medicarsi da soli.

Conseguenze

Il fatto che l’Italia avesse protocolli all’avanguardia nella lotta alle pestilenze, non la risparmiò dai pesanti costi umani, sociali, psicologici ed economici. Le epidemie del XVI e XVII secolo ebbero per l’Italia conseguenze socio-economiche a lungo termine: carestie, cali demografici, miseria e un enorme indebitamento pubblico. Inoltre, a livello continentale, le catastrofiche pestilenze del Seicento contribuirono in maniera decisiva al declino dell’Italia rispetto ai paesi del Nord Europa.
È la distanza che ci consente di fare queste valutazioni. Per il futuro, superato lo spaesamento, non rimane che augurarci che l’Europa abbia una visione di lunga durata e colga questa, pur drammatica, occasione per porre un freno alle disuguaglianze che ancora la caratterizzano.


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