Il senso impervio: vette e abissi dell’interpretazione estrema
Una riflessione sul concetto di estremismo ci porta a riflettere su alcune sue caratteristiche: relazionalità, gradualità e dinamicità, a partire dall'esempio di studio dei comportamenti alimentari
Il senso impervio nasce dall’umana fascinazione per l’estremo, la quale può sia spingere verso nuove vette di consapevolezza e creatività, sia far sprofondare in abissi di ostinazione e violenza. Ma come definire l’estremo e la sua frequentazione, specialmente in quella forma ideologica, denominata “estremismo”, che è alla base di tanti linguaggi dell’impervio?
“Estremismo” è termine e concetto che non designa una posizione precisa, determinata e definitiva nella semiosfera, l’area astratta in cui una comunità produce, gestisce e fa circolare il significato. Come suggerisce l’etimologia stessa della parola, il suo significato è intrinsecamente topologico e relazionale. Qualcosa può essere estremo solo situandosi alla periferia di uno spettro, al confine di un’area di potenzialità. Il termine e il concetto corrispondente, inoltre, segnalano che questo spettro, così come quest’area, non sono disposti in modo neutrale, ma contengono almeno una dialettica e, di conseguenza, una polarizzazione. In altre parole, “estremismo” si riferisce implicitamente a un’assiologia, che include anche l’impossibilità di non adottare una prospettiva, un punto di vista.
Pertanto, quando qualcosa viene qualificato come espressione di “estremismo”, tale qualificazione evidenzia intrinsecamente che: 1) questo qualcosa, sia esso un’affermazione o un comportamento, è paragonabile e commensurabile con altri eventi simili nella semiosfera; 2) tutti questi eventi possono essere disposti lungo uno spettro, in relazione alla pertinenza che determina la loro commensurabilità; 3) coloro che considerano l’affermazione o il comportamento come estremo ritengono di avere il diritto di posizionarsi più al centro dello spettro, e contemporaneamente di collocare ciò che giudicano all’uno o all’altro estremo di esso.
Ad esempio, quando un’ideologia alimentare e il suo conseguente comportamento, come il fruttarismo, vengono etichettati come estremi, ciò deriva dal fatto che 1) questa dieta e i suoi fondamenti ideologici sono implicitamente considerati paragonabili e contrastabili con comportamenti alimentari simili, non solo in generale, ma anche nel sotto-spettro di quelli che impongono restrizioni rispetto al mainstream; 2) il confronto e la contrapposizione permettono di collocare il fruttarismo lungo uno spettro concettuale, che misura essenzialmente l’entità delle restrizioni imposte alla dieta tradizionale; 3) si assume una prospettiva che colloca il centro di questo spettro a distanza dalla posizione ideale occupata dal fruttarismo, che viene giudicato, quindi, come una pratica “impervia”, esito di un’ideologia “estrema”.
Concepire la cultura come una semiosfera (con Jurij M. Lotman) favorisce una forma di relativismo non morale ma strutturale: a seconda di ciò che occupa il centro della semiosfera, si è in grado di percepire e stigmatizzare come “estremi” frammenti di testualità, compresi i comportamenti alimentari e le ideologie, che si collocano ai margini della semiosfera o addirittura si soffermano sulla soglia tra ciò che è sensato e ciò che non lo è. Oltre l’impervio, infatti, le culture collocano l’insensato. Riprendendo l’esempio del fruttarismo, appare evidente che l’adozione di una tale comprensione topologica e dinamica della cultura permette di comprendere le seguenti caratteristiche dell’estremo in generale.
In primo luogo, l’estremismo è relazionale: è solo perché le diete che includono una maggiore varietà di alimenti, come la carne o il pesce o i cereali, sono poste più al centro immaginario della semiosfera di una comunità socioculturale, che il fruttarismo può essere considerato “estremo”.
In secondo luogo, l’estremismo è graduale: dato un comportamento estremo o, più in generale, una posizione socioculturale nella semiosfera, si possono sempre immaginare sfumature che lo differenziano da comportamenti meno o ancora più estremi, così come articolazioni interne basate su un’adesione più o meno estrema a un principio o a un insieme di principi. Nell’ambito del fruttarismo, ad esempio, si può distinguere tra chi mangia solo frutta e chi mangia solo frutti che spargono i loro semi quando vengono mangiati; i primi saranno inclini a considerare i secondi come “estremi”, anche se forse non con la stessa veemenza con cui i primi sono, a loro volta, etichettati come “estremisti” dai mangiatori tradizionali.
In terzo luogo, l’estremismo è dinamico: la semiosfera è una rappresentazione concettuale della semiosi in quanto produce significato all’interno di una comunità socioculturale; di conseguenza, può essere statica solo nella finzione dell’analisi, perché in realtà la posizione reciproca del centro e dei confini di una semiosfera si evolvono continuamente e il contenuto dell’etichetta “estremismo” con essi. Essere vegetariani, ad esempio, è raramente considerato “estremo” al giorno d’oggi, per il semplice fatto che questa dieta e la sua ideologia, un tempo ai confini della semiosfera, si sono progressivamente spostate verso il suo centro, man mano che diete più restrittive apparivano ai margini della semiosfera e che stili alimentari più mainstream perdevano sempre più la loro centralità; al giorno d’oggi, l’essere vegetariano non viene più giudicato come una posizione estrema, sia perché il veganismo è apparso e si è moltiplicato alla periferia della semiosfera, sia perché mangiare carne ha progressivamente smesso di essere considerato un comportamento neutro e, come tale, costantemente immune dalla stigmatizzazione sociale. Nella comunità alimentare che condivide il sistema modellizzante primario della lingua italiana, ad esempio, il cambiamento è stato così radicale e visibile che offrire un agnellino da latte per cena agli amici potrebbe essere un rischio sociale, e probabilmente destinato a essere stigmatizzato come inappropriato e come manifestazione di crudeltà.
Lo stesso vale per le pellicce: indossarle era un comportamento raramente contestato fino agli anni Novanta, mentre sono diventate un capo di moda “impervio” nei decenni successivi, al punto che solo chi è totalmente ignaro di tale evoluzione o un provocatore potrebbe indossarle attualmente. L’allontanamento dal centro di una semiosfera, infatti, significa anche perdere la propria neutralità: più una pratica produttrice di significato si allontana dal baricentro di una semiosfera, più è probabile che appaia come saliente, nel senso che la pratica cessa di essere un abito per la maggioranza e si trasforma sempre più nel motore di un processo semiosico. Essere un onnivoro mainstream a una cena non suscita alcuna curiosità; essere un fruttariano, invece, rischia di provocare domande, obiezioni e reazioni, proprio perché “incarna” un’ideologia, e le pratiche che ne derivano, che non possono essere percepite come abiti ma come provocazioni al mainstream.
La semiosfera culturale produce costantemente un meta-discorso deontico, che suggerisce esplicitamente o implicitamente quali pratiche di produzione di significato debbano essere situate al centro della semiosfera, quali alla periferia e quali addirittura al di fuori di essa, attraverso un processo che di solito comporta non solo una stigmatizzazione socioculturale ma anche un sistema formalizzato d’interdizione e sanzione legale. In Italia, mangiare lasagne non è un comportamento particolarmente saliente, nel senso che è compiuto quotidianamente da migliaia di mangiatori mainstream; mangiare una lasagna vegetariana non è altrettanto mainstream, ma non è più alla periferia della semiosfera; al giorno d’oggi, difficilmente potrebbe essere etichettato come “estremo”; mangiare una lasagna vegana, o ancora di più mangiare una lasagna fruttariana, probabilmente provocherà curiosità da parte dei mangiatori mainstream, ma anche stigmatizzazione sociale, lungo uno spettro che va dalla blanda presa in giro degli amici vegani all’attaccarli come pericolosi estremisti; mangiare una lasagna fatta di parti di corpo umano, infine, incorrerà non solo nella stigmatizzazione socioculturale ma anche, probabilmente, in indagini di polizia, a significare che tale comportamento si colloca al di fuori di ciò che la semiosfera, e la comunità che essa rappresenta, sono disposte a considerare come accettabile e sensato.
La relazione tra estremismo delle ideologie, religiose e non, e tecnologie della comunicazione diviene oggi sempre più saliente, e stimola le seguenti domande sulla relazione fra senso impervio e senso comune: 1) Cosa determina che una pratica di produzione di significato sia situata al centro della semiosfera, alla sua periferia o addirittura nella tenebra semiotica al di fuori di essa? 2) Quali agentività promuovono o degradano una pratica di produzione di significato verso il centro o la periferia di una semiosfera, e con quali modalità? 3) Quali semiosfere hanno maggiori probabilità di produrre estremismi e come dovrebbero affrontarli? 4) La comunicazione tra il centro e la periferia della semiosfera è possibile, è auspicabile e in quali forme? 5) Può esserci moderazione in questa comunicazione che coinvolge le estremità di una semiosfera? Quali agentività dovrebbero assumersene la responsabilità e in che modo? 6) Infine, qual è l’impatto dell’evoluzione delle tecnologie di comunicazione sulle disposizioni di tali modalità? La formazione, l’evoluzione e la comunicazione degli estremismi hanno ricevuto un impatto significativo dalla proliferazione delle reti sociali digitali e delle loro pratiche di comunicazione?
Sono tutti temi centrali per chi, oggi, si occupa dell’estremo, del senso impervio che esso genera, e del fascino e delle preoccupazioni che l’uno e l’altro innescano nelle società contemporanee, mettendone in fibrillazione il senso comune.