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La storia ai raggi X: l’XRF applicata alla critica delle fonti

21 Marzo 2023

Quante volte, davanti a un misterioso reperto storico, gli si vorrebbe guardare dentro, farlo parlare più di quanto parli, fargli il terzo grado? Oggi questo è possibile.

Condizione non sufficiente ma pressoché necessaria a ogni ricostruzione storica, la critica delle fonti si avvale delle cosiddette discipline ausiliarie, il cui novero si è arricchito con il progredire del sapere umano nel tempo: dalla cartografia alla numismatica, passando per la paleografia e l’antropologia.

A queste si è aggiunta, a partire dai primi studi pionieristici del 1928, una tecnica di analisi nota come spettrofotometria XRF. Se il nome può apparire ostico, è sufficiente scomporlo per comprenderne il significato: l’acronimo XRF si riferisce in inglese alla X-Ray Fluorescence, vale a dire l’emissione di raggi X da parte di alcune sostanze i cui elettroni vengano eccitati tramite raggi gamma o high-energy X-Rays.

La spettrofotometria non è altro che lo studio dello spettro in cui tali radiazioni possono essere disperse: a seconda dell’atomo da cui proviene, infatti, la radiazione emessa avrà una lunghezza d’onda diversa. Basta analizzare dunque quali linee spettrali si formino per riconoscere da quali elementi chimici è composto l’oggetto irradiato, quantomeno da un certo peso atomico in su.

Benché il procedimento sia piuttosto user-friendly, si tratta pur sempre di irraggiare un oggetto con questo tipo di radiazioni elettromagnetiche: sembrerebbe difficile applicarlo a materiali delicati come possono essere i documenti storici.
In realtà il vantaggio principale della spettrofotometria XRF è proprio il suo carattere non distruttivo: di norma si utilizzano radiazioni che eccitano quasi esclusivamente gli elettroni di core, ossia quelli situati sugli orbitali più vicini al nucleo atomico e che generalmente non inficiano i legami chimici.

Proprio per questo motivo, la tecnica è oggi impiegata anche in campo archeologico: in uno studio del Met di New York pubblicato nel 2021, ad esempio, la XRF è stata utilizzata per indagare l’origine geografica delle pietre turchesi presenti in alcuni manufatti egizi e vicino-orientali.

Conoscere la composizione elementale di un oggetto, tuttavia, non è funzionale solamente alla sua descrizione ma anche all’accertamento della sua autenticità: nel 2009, alcuni ricercatori dell’Università di Lisbona hanno analizzato dei testi antichi, verificando la corrispondenza fra l’inchiostro usato nel testo e quello presente nella firma.
Parte del team lisbonese ha poi partecipato a un’analisi, pubblicata nel 2017, del cosiddetto terzo segreto di Fátima: suor Lúcia Santos, una dei tre bambini testimoni della supposta apparizione nel 1917, avrebbe registrato le parole della Vergine in alcuni documenti del 1941-44.

Solo le prime due parti vennero però rivelate al pubblico, mentre la terza fu tenuta nascosta dal Vaticano fino al 2000, quando Giovanni Paolo II optò per la sua divulgazione e suscitò al contempo diverse illazioni sul fatto che il documento rivelato non fosse l’autentico manoscritto di suor Lúcia.
Lo studio del 2017 impiega la spettrofotometria micro-XRF (che convoglia un fascio ridotto di raggi su una superficie ristretta) per confrontare la carta e l’inchiostro del terzo segreto di Fátima con quelli di altri manoscritti della stessa autrice.

Malgrado i documenti siano costituiti da materiali cartacei diversi, sono tutti vergati con inchiostro a base di zinco e il terzo segreto non presenta tracce di cancellature o manipolazioni.

Una storia più articolata è quella della cosiddetta Mappa di Vinland, un planisfero venduto nel 1957 all’Università di Yale dal filantropo Paul Mellon, che l’aveva acquistato dall’antiquario Laurence Witten.
La mappa, di cui si proponeva una datazione al primo Quattrocento, riportava ad ovest dell’Oceano Atlantico una terra denominata Vinilanda: il riferimento è alla Vinland menzionata da alcune saghe norrene duecentesche insieme a Helluland e Markland, identificate con il Canada orientale.

La mappa non era certo l’unica prova dell’approdo vichingo in Nordamerica nel XI secolo d.C. (oltre alle saghe norrene, lo testimoniano alcuni storici medievali e un ritrovamento archeologico), ma sembrava costituire la prima rappresentazione europea dell’America.
A suffragarne l’autenticità concorrevano i buchi dei tarli, che dimostravano la passata contiguità fra la mappa e due veri documenti medievali.

Numerosi erano però anche gli elementi sospetti, se non proprio anacronistici: dall’accuratezza delle coste groenlandesi alla quasi centralità dell’Atlantico, fino a un errore nell’indicazione latina dei punti cardinali. Fra il 2013 e il 2018 si scoprì che la mappa risulta ispirata ad un planisfero settecentesco.

A dirimere la questione fu infine l’inchiostro: già nel 1973 fu rilevata la presenza di anatasio, un biossido di titanio usato commercialmente negli inchiostri solo a partire dagli anni Venti del Novecento, ma soltanto la spettrofotometria XRF ha messo fine al dibattito.
La stessa Yale, infatti, nel 2021 ha confermato con questa tecnica la presenza di anatasio nell’inchiostro della mappa, ma ha anche dimostrato il carattere doloso del falso storico: sul retro della mappa, al titolo originario di uno dei due testi medievali acclusi è stato aggiunto “parte prima” in inchiostro moderno.

La mappa è dunque un falso novecentesco, scritto su dei fogli originariamente bianchi e allegati a due documenti autentici.

La spettrofotometria XRF ha comunque dei limiti, ed è proprio la mappa di Vinland a mostrare come le “scienze dure” e le altre discipline ausiliarie della storia, talvolta, lavorino meglio insieme. Come ha evidenziato Paolo Chiesa, infatti, se interpellati filologi e paleografi avrebbero potuto mostrare l'”opinabilità della storia” della mappa sin da subito.


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