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Una fortunata serie di errori

13 Giugno 2023

Da tempo i biologi si interrogavano riguardo alla funzione di alcune membrane presenti nelle cellule di diversi organismi, come le diatomee, particolarmente rilevanti per il sequestro del carbonio atmosferico. Sembra che questo nodo sia finalmente stato sciolto.

Probabilmente per la vita terrestre non c’è nulla che valga più di un errore. Si pensi per esempio alle mutazioni genetiche: si tratta di cambiamenti nella sequenza del DNA, spesso frutto di errori di trascrizione, che talvolta rendono, per casuale coincidenza, alcuni organismi più adatti a certe condizioni ambientali. In altre parole, questi errori di trascrizione, raramente fanno sì che alcuni individui siano al posto giusto nel momento giusto. 

Anche eventi imprevisti più macroscopici delle mutazioni genetiche possono giovare agli organismi, come dimostra uno studio pubblicato recentemente da Daniel P. Yee e colleghi. Per poter entrare nel vivo della ricerca, è però necessario fare prima un balzo all’indietro di circa 1.5 miliardi di anni. 

Vi siete mai chiesti quali siano le differenze che ci separano dalle piante, ma, soprattutto, quale sia l’origine di queste differenze? Una delle principali caratteristiche che separa gli animali dalle piante, ci insegnano alle scuole elementari, è che queste ultime sono organismi autotrofi, mentre gli animali no. Ciò significa che sia noi animali che le piante necessitiamo di diverse molecole per nutrirci, ma mentre noi siamo costretti ad assumerle cibandoci di altri organismi (da qui il termine eterotrofia), le piante sono in grado di sintetizzarsele da sole. Le loro cellule sono infatti equipaggiate con un tipo di organello che noi non possediamo, il cloroplasto, deputato alla produzione di zuccheri tramite fotosintesi. 

I cloroplasti sono organelli molto particolari in quanto posseggono del DNA proprio, possono dividersi per scissione binaria e non sono producibili de novo dalle cellule. Insomma, come ha evidenziato Constantin Mereschkowsky nel 1905, sembrano più batteri che organelli. Per la precisione, cianobatteri. Dal 1905, questi ed altri organelli sono stati studiati approfonditamente e, grazie al prezioso contributo di Lynn Margulis nel 1967, si è giunti a pensare che non solo i cloroplasti somigliassero particolarmente a dei cianobatteri, ma che fossero stati cianobatteri. Sembra infatti che, circa 1.5 miliardi di anni fa, una cellula eucariotica abbia fagocitato un cianobatterio e che, per qualche motivo, la digestione non sia andata secondo i piani; il cianobatterio è sopravvissuto e tra le due cellule si è instaurato un rapporto simbiotico fruttuoso che ha condotto alla comparsa di tre importanti gruppi di organismi: alghe rosse, glaucofite e alghe verdi. Da quest’ultimo gruppo derivano le piante terrestri.

Tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, gli studi di Sarah Gibbs, Max Taylor, Dennis Greenwood e colleghi hanno dimostrato come questa “digestione sbagliata” non sia stata un unicum. Solitamente, i cloroplasti sono circondati da due membrane, entrambe di origine cianobatterica, ma se si osservano alcune alghe unicellulari come le diatomee, si scopre che i loro cloroplasti sono circondati da più di due membrane, il che testimonia l’avvenimento di un processo di endosimbiosi secondaria. In altri termini, questi organismi sono comparsi sul pianeta a seguito della tentata fagocitosi di una cellula eucariote fotosintetica (originatasi tramite endosimbiosi primaria, come descritto sopra) da parte di una cellula eucariote non fotosintetica. Anche in questo caso, la cellula fagocitata è sopravvissuta e una errata digestione si è trasformata in una fruttuosa simbiosi che ha originato nuove specie. 

Ma perché, e qui arriviamo allo studio di Yee, queste membrane addizionali non sono state smantellate dopo l’instaurazione del rapporto simbiotico? La risposta a questa domanda risiede nell’ingente presenza di una particolare proteina chiamata V-type H+-ATPase (VHA) in prossimità dei cloroplasti. La VHA è una proteina – tecnicamente, un complesso proteico oloenzimatico – che molti organismi utilizzano per acidificare i fagosomi, ovvero le vescicole in cui racchiudono le prede per digerirle a seguito di un evento fagocitotico, e che probabilmente è stata impiegata durante il tentativo di digestione che ha dato origine all’endosimbiosi secondaria di cui sopra. Ancora oggi, la VHA acidifica il microambiente circostante i cloroplasti, delimitato dalle membrane addizionali, favorendo l’attività di fotosintesi. Infatti, le alghe unicellulari come le diatomee assorbono dall’ambiente quello che viene chiamato carbonio inorganico disciolto (CO2, HCO3, CO32− e altre molecole), per impiegare poi l’anidride carbonica nella fotosintesi. Se però si dispone di un ambiente acido vicino ai cloroplasti, il carbonio inorganico disciolto che vi arriverà sarà indotto a trasformarsi in anidride carbonica: più anidride carbonica significa più fotosintesi, quindi più zuccheri di cui l’organismo si può cibare. 

È dunque grazie ad una fortunata serie di errori che alcune alghe unicellulari, come le diatomee, si sono affermate nel Permiano, un periodo nel quale gli oceani erano poveri di CO2,  e tutt’ora rimangono fra i principali fissatori di carbonio (e dunque fra i principali regolatori del clima) del pianeta.


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