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Ada Lovelace e l’informatica al femminile

17 Luglio 2019

Non tutti sanno che la matematica britannica Ada Lovelace fu tra le pioniere dell’informatica. Oggi però le percentuali di donne che studiano o lavorano nel settore sono sempre molto basse

«Ottenere un meccanismo in grado di combinare simboli generali in sequenze illimitate, per varietà ed estensione, significa aver trovato un legame tra le operazioni della materia e i processi mentali più astratti della matematica». Questa frase non è stata pronunciata da Alan Turing, Bill Gates o Steve Jobs, ma fu scritta nel 1843 da una matematica britannica da molti considerata la prima programmatrice della storia: Ada Lovelace.

La storia scientifica di Lovelace è legata a doppio filo a quella di Charles Babbage, altro pioniere dell’informatica che a metà degli anni trenta dell’Ottocento progettò la “macchina analitica”, prototipo di un vero e proprio computer meccanico alimentato da una macchina a vapore. L’idea, estremamente innovativa per l’epoca, non divenne mai realtà, ma nel 1842 l’ingegnere italiano Luigi Menabrea, dopo avere ascoltato una lezione tenuta da Babbage sui principi di funzionamento della macchina, ne pubblicò un resoconto in francese. Ed è qui che entra in gioco Ada Lovelace, che collaborava con Babbage già da circa dieci anni dopo aver studiato matematica da auto-didatta: Babbage le chiese di tradurre in inglese il documento di Menabrea, ma invitandola ad aggiungere contenuti originali e commenti sotto forma di note in appendice.

Ada Lovelace

Lovelace non se lo fece ripetere, e fu soprattutto la “nota G” (l’ultima della serie) a passare alla storia, con la descrizione di un algoritmo per il calcolo dei cosiddetti ”numeri di Bernoulli” (una successione ricorsiva di numeri razionali che ha numerose applicazioni nella matematica moderna) che sotto certi aspetti può essere considerato il primo programma informatico della storia.

In realtà, il reale contributo originale di Ada Lovelace a queste note è stato a lungo argomento di discussione tra gli studiosi del settore, ma ricerche recenti basate sui manoscritti originali conservati nella Bodleian Library di Oxford (come descrive il libro “Ada Lovelace: the making of a computer scientist”) rendono giustizia al talento e all’originalità della matematica britannica. Che nelle sue note si spinse anche oltre, arrivando a fare considerazioni su ciò che ora chiamiamo “intelligenza artificiale”, cioè sulla capacità della macchina analitica di produrre idee originali. Lovelace non lo considerava possibile, avviando un ideale dibattito con Alan Turing (il padre dell’informatica moderna), che nel suo famoso lavoro del 1950 “Computing Machinery and Intelligence” – in cui si riferì esplicitamente all’”obiezione di lady Lovelace” – affermò invece la sua convinzione che fosse possibile programmare una macchina in modo da ottenere risposte non prevedibili.

La storia di Ada Lovelace e del suo contributo allo sviluppo dell’informatica moderna ci conduce a una riflessione sul presente. Oggi, le percentuali delle donne che scelgono di studiare e lavorare nel settore dell’informatica sono molto basse in tutto il mondo. Sembra uno dei tanti esempi delle sfide aperte sul tema del gender equality, ma il caso dell’informatica rappresenta da sempre un terreno di studio particolare, perché pone una questione cruciale: è un problema – come in molti altri casi – di mancate pari opportunità oppure è qualcosa legato alla naturale inclinazione alla materia? In altre parole: ci sono così poche donne informatiche perché non hanno le stesse opportunità di fare carriera nel settore rispetto agli uomini, oppure perché sono mediamente meno interessate a questa disciplina?

Una statistica fornita dal movimento “Girls Who Code”, un progetto americano che punta a favorire l’accesso delle ragazze al lavoro in ambito informatico, sembrerebbe far propendere per la prima opzione: negli Stati Uniti, nel 1984 il 37% dei laureati in scienze informatiche erano donne, mentre oggi la quota è scesa al 18%. Percentuali simili si osservano per quanto riguarda gli impiegati nel settore informatico. «Non è una coincidenza che, negli anni ottanta, i computer in commercio fossero pensati prevalentemente per una clientela maschile, il che modificò radicalmente l’immagine pubblica dell’informatico», ha sottolineato in un recente articolo su Scientific American Reshma Sajuani, fondatrice di “Girls Who Code”. «Quello che era nato come un contesto lavorativo ricco di presenze femminili si trasformò in uno in cui i programmatori erano ragazzini chini sul computer rinchiusi in uno scantinato. Di conseguenza le ragazze finirono per ritirarsi in massa». Secondo Sajuani, insomma, il problema delle pari opportunità di accesso al mondo dell’informatica comincia ben prima dell’iscrizione all’università o di un colloquio lavorativo, ma fin dalle scuole medie, favorito quasi inevitabilmente dal contesto sociale.

Oggi, forse, le cose stanno cominciando lentamente a cambiare, e non manca chi sostiene la tesi che, anche in presenza di pari opportunità, le donne seguirebbero comunque meno degli uomini la strada dell’informatica. Tuttavia, per saperlo con certezza è necessario che le pari opportunità esistano realmente, e su questo c’è ancora molto da lavorare. Ci fosse una nuova potenziale Ada Lovelace, là fuori, sarebbe un delitto lasciarsela scappare.


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