Tradurre parole, mondi e culture
Un breve accenno alla traduzione letteraria proseguendo il parallelismo con la buona comunicazione scientifica
Nello scorso editoriale il direttore di FBK Magazine Claudio Ferlan aveva tracciato un parallelismo tra la comunicazione scientifica efficace e la traduzione, intesa come il trasporre un concetto da una lingua ad un’altra rielaborando però anche il contesto culturale in modo da renderlo “digeribile” al lettore destinatario.
La traduzione, infatti, non può e non deve essere una semplice riproposizione di parole o frasi espresse in una lingua di partenza (L1) in una seconda lingua di arrivo (L2). Non lo è quasi mai, nemmeno nella traduzione cosiddetta tecnica, cioè quella di testi scientifici, giuridici o medici: in questi casi l’aderenza del testo originario a quello tradotto è quasi totale, e infatti ben funzionano in tale ambito i vari software di traduzione automatica che risparmiano una buona fetta di lavoro ai traduttori, che operano più sulla parte di editing e proofreading del testo.
Diverso è invece il caso della traduzione letteraria, quella sorta di magia che ci permette di avvicinarci a testi originariamente scritti nelle lingue più disparate. Un testo letterario non racchiude infatti al suo interno solo una serie di parole che, messe assieme una in fila all’altra, acquisiscono un senso; racchiude mondi interi, generazioni, culture, società, emozioni, paure, talvolta anche pregiudizi. E allora come si può affrontare la traduzione di un universo così ricco e variegato?
Innanzitutto è essenziale che il traduttore conosca molto bene il contesto in cui il testo si colloca, e quindi il periodo storico in cui è stato scritto, il luogo geografico dove è stato ambientato, la cornice sociale che fa da sfondo (race, milieu, moment, per dirla con Hippolyte Taine). Questo primo gradino di partenza, che spesso richiede una vera e propria ricerca mirata e uno studio approfondito che precede l’atto traduttivo, permette al traduttore di non cadere in anacronismi, imprecisioni o errori belli e buoni.
Una volta chiaro il contesto, è bene documentarsi anche sull’autore del testo: chi è (o era), qual è la sua epoca, che lavoro fa, quali sono i suoi interessi. Uno scrittore, infatti, è spesso presente dentro alle parole che scrive, anche se apparentemente i mondi da lui creati sono distanti da quello in cui vive. Paradossalmente, persino in un romanzo fantasy è possibile scorgere l’orma abbozzata del passo dell’autore, anche solo nella descrizione di un personaggio o di un luogo. Sarà un piacere e un conforto scorgerlo tra le pagine e ci farà sentire più “padroni” del testo.
Un’altra cosa importante, se possibile, è leggere integralmente il testo prima di iniziare a tradurlo, per non incorrere in errori di interpretazione iniziali e scoprire di dover modificare tutto alla luce di qualcosa che si scopre, magari, solo a metà del lavoro!
Ora, finalmente, tutto è pronto per iniziare, e qui inizia il lavoro più difficile – ma anche appagante – per un traduttore: trasporre un intero mondo nella propria lingua (bisognerebbe sempre tradurre nella propria lingua madre, o comunque in una lingua che ormai è come se lo fosse!) e renderlo comprensibile e accessibile al lettore finale. Per farlo serve attuare una “sospensione del giudizio”, togliere gli occhiali forgiati dalla cultura di appartenenza e dalle esperienze personali e afferrare il testo a mani nude. Generalmente esistono due tipologie di approcci traduttivi, che possono essere adottati nel corso dell’intera traduzione o alternati: strategia straniante e strategia addomesticante. La prima prende il lettore per mano e lo porta verso il testo, gli fa cioè compiere lo sforzo di comprendere qualcosa di diverso, imparare qualcosa di nuovo che all’inizio può apparire “strano” o persino ostico. Un esempio banale di questo approccio è lasciare, nella resa italiana, banana bread invece di tradurlo con torta alle banane: il lettore pigro potrebbe storcere il naso e infastidirsi davanti a qualcosa che non conosce e non ha voglia di approfondire, mentre il lettore curioso potrebbe fare una breve ricerca e scoprire che questo è un dolce tipico americano, fatto con le banane molto mature e contenente bicarbonato di sodio al posto del lievito come agente lievitante. E magari – perché no – questo secondo tipo di lettore potrebbe addirittura decidere di cimentarsi nella ricetta!
Ne consegue che la strategia addomesticante prevede invece una forzatura del testo verso la lingua e la cultura di arrivo, per venire incontro al lettore e rendere la lettura agevole e scorrevole, appiattendo però inevitabilmente il testo finale e facendogli perdere colori e sfumature.
L’accenno alle due tipologie di approccio appena descritte ci riporta all’importanza della buona comunicazione ma mette in luce anche un altro aspetto, spesso tralasciato: l’importanza della tipologia di lettore. Il traduttore o il comunicatore scientifico hanno in comune l’arduo compito di regalare all’utente finale un testo o un’informazione che in partenza non era accessibile, o lo era solo parzialmente, mantenendo coerenza e aderenza all’originale. Tuttavia, molto dipende in ultima analisi anche da quanto il lettore o fruitore sarà disposto ad aprire la propria mente per accogliere la nuova informazione, da quale sforzo di comprensione o di lettura sarà disposto a compiere, da quanto si allontanerà dalla sua “zona di confort” per spingersi in territori inesplorati, letterari o scientifici che siano.
Per imparare cose nuove servono inevitabilmente curiosità e una buona dose di dedizione, che i moderni mezzi di informazione come ad esempio i social media tendono a disincentivare, sfornando contenuti che vengono solo scorsi frettolosamente da utenti spesso distratti. È necessario quindi impegno sia da parte di chi genera informazione, sia da parte di chi la riceve.