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Be a Scientist: tra identità di mestiere e parità di genere

18 Febbraio 2022

La professione della ricerca raccontata da due protagonisti d'eccezione

Cogliendo l’opportunità della Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza, FBK ha proposto un matinée online in cui uno studioso e una studiosa di fisica si sono raccontati, con tanto di curiosi aneddoti personali, per rivelare cosa davvero significhi fare ricerca.

Stiamo parlando di Roberto Battiston, professore ordinario di Fisica Sperimentale presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, già presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e autore di numerosi saggi e libri di divulgazione scientifica, e di Caterina Petrillo, professore ordinario di Fisica Sperimentale all’Università degli Studi di Perugia e presidente di Area Science Park, della General Assembly di ELI-ERIC e recentemente nominata componente del CDA dell’Enea dal Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani.

Mettendo da parte per un attimo l’annosa questione del linguaggio inclusivo, che ancora non trova accordo unanime in vari settori, abbiamo chiesto ai relatori cosa voglia dire intraprendere il mestiere della ricerca e a che punto siamo arrivati, in tale ambito, con la parità di genere.

Si è o si fa gli scienziati?

Apre le danze Caterina Petrillo, con un’inaspettata rivelazione: non si nasce scienziati ma ci si diventa, a volte anche un po’ per caso (nel suo, “per amore di un fisico, più che della fisica”, come ci ha confidato). La molla però rimane sempre la passione per la conoscenza e la curiosità, il voler capire perché qualcosa funziona in un certo modo, cosa ci sta dietro.

L’elemento fondamentale è la determinazione e non temere le sfide né l’errore, cosa importante soprattutto per le donne. Pare infatti che spesso le donne abbiano più paura di sbagliare in determinati ambiti, soprattutto quelli scientifici, complice il fatto che per molto tempo sono state dissuase dall’intraprendere percorsi di studio delle STEM, le cosiddette scienze dure, e indirizzate culturalmente ad una pacata perfezione, più che alla sfida.

In questo senso la ricerca è una scuola di vita perché procede intrinsecamente per errori, approssimazioni e miglioramento, quindi insegna a non temere di sbagliare: se si sbaglia bisogna solo cambiare prospettiva, ma non è un fallimento determinante e fine a se stesso. Anzi, spesso sbagliando una cosa si scoprono nuovi potenziali utilizzi in altri campi (contaminazione che nasce dall’errore) e molti sono gli esempi famosi di questa serendipity, per dirla all’inglese.

Il mestiere della ricerca, poi, si impara sul campo. È sicuramente una professione che permette creatività e di agire nel pieno della libertà intellettuale, con molti stimoli anche a livello internazionale. D’altro canto, è un lavoro che richiede molto tempo e dedizione, sacrifici e scelte personali dirimenti, cosa di cui sia uomini che donne devono essere consci prima di decidere se dedicarvisi, così come del resto accade per molti altri lavori.

Tuttavia, quando una cosa la si fa con piacere e interesse, la fatica passa in secondo piano, e la prof.ssa Petrillo ci confida che per lei dedicarsi alla ricerca è un po’ come praticare uno sport o coltivare un hobby, e la soddisfazione che deriva dal trovare una soluzione o costruire un nuovo modello ripaga lo sforzo fatto.

Dello stesso parere è Roberto Battiston, che suggerisce una personale visione della ricerca come gioco, più che come mestiere: al di là della fatica e dei “tempi morti” dettati dalle riunioni e dalla burocrazia, il piacere di scoprire come funziona la natura non ha eguali.

Anche Battiston, comunque, si è inizialmente accostato alla fisica quasi per caso, per guadagnare l’indipendenza e uscire di casa, come accade per molti giovani universitari. Ma anche in lui lo stimolo della curiosità, innato di per sé in ogni essere umano, ha fatto il resto. Il relatore ha proposto un’evocativa similitudine con il mondo della musica: il ricercatore è un po’ come un pianista che studia musica per anni e poi, d’un tratto, gode della soddisfazione di scoprire per la prima volta una “melodia”, una sinfonia dettata da leggi naturali investigate fin nei dettagli più reconditi e apparentemente insignificanti, per poi trarne una deduzione che cambierà il mondo. La natura diventa quindi un interlocutore privilegiato.

Cosa si intende per parità di genere nel mondo del lavoro e, in particolare, in quello della ricerca?

Su questo punto occorre partire da un assunto di base: chi si vuole avvicinare alla ricerca deve essere consapevole che è un’attività che non ha fine, che assorbe e occupa a tempo pieno, facendo viaggiare molto e spostare frequentemente, soprattutto all’inizio della carriera. Battiston propone a questo proposito un’altra similitudine, questa volta con il mondo della Formula 1: in quanto detto finora il genere non c’entra nulla, la ricerca è un mestiere faticoso per tutti, uomo o donna non ha importanza.

Il genere entra in gioco quando in questa gara c’è una componente che corre con 4 ruote e una con il freno a mano tirato. Un simile contesto necessita di un intervento regolatore dall’esterno, non tanto dall’interno, dove sostanzialmente c’è collaborazione e stima fra ricercatori e ricercatrici. Occorre quindi una normativa che permetta a tutti di correre allo stesso modo, un intervento normativo, legislativo e anche culturale, che preveda ad esempio il permesso parentale di più mesi anche per i papà o una riforma del sistema assistenziale neonatale, come ci insegnano i paesi nordici.

Caterina Petrillo concorda, ma sottolinea allo stesso tempo che gli elementi da prendere in considerazione sono tanti, e variegati. Per quanto riguarda il lavoro puro sono stati fatti progressi, e infatti nelle prime fasi di accesso alle discipline STEM le studentesse sono pari agli studenti nel percorso di studio, accesso al dottorato, ecc. Il problema si presenta prevalentemente nell’avanzamento di carriera, man mano che ci si avvicina alle posizioni apicali, non solo nella ricerca ma anche nelle aziende pubbliche e private e in varie professionalità. Anche la prof.ssa Petrillo concorda che servano strumenti legislativi e interventi strutturali che mettano madri e padri sullo stesso livello, ma ci sono molti altri aspetti che entrano in gioco, parallelamente, come alcuni bias inconsapevoli e incancreniti di cui le donne stesse spesso sono vittime: un po’ per stereotipi, un po’ per cultura sociale, alcune attività continuano a essere delegate alle donne (es: cura della casa, dei figli e degli anziani), fagocitando il resto.

Spesso manca inoltre la consapevolezza della ricchezza della diversità di genere in un gruppo di lavoro.

Meglio quindi contesti misti? Ci sono differenze nel lavoro tra uomini e donne?

Domanda non facile. Battiston azzarda che probabilmente ci sono delle differenze legate al genere, ma è difficile dire esattamente quali. Per quanto lo riguarda, si è sempre trovato bene in gruppi misti, quindi probabilmente è vero che c’è un valore aggiunto nella diversità di genere fra colleghi, un misterioso quid in più che naturalmente esula dalla preparazione scientifica di base.

Petrillo si spinge un passo oltre e suggerisce che la vera ricchezza sta nel mettere assieme le diversità e le diverse competenze, non solo quelle di genere.

La pandemia ha cambiato qualcosa?

La novità più irruente e pregnante della pandemia da Covid-19, in particolar modo dei periodi di lockdown o zone rosse, sono state senza dubbio le innumerevoli call da remoto, a volte amate e a volte odiate.

Indubbi i vantaggi che le nuove tecnologie apportano, sia a livello di organizzazione famigliare, lavoro agile e inquinamento (basti pensare a tutti i viaggi di lavoro risparmiati in questi due anni), ma è necessario che siano regolamentate perché non si rivelino un boomerang e non originino persino nuove disparità, per esempio se in un contesto di lavoro da remoto le azioni di cura siano comunque demandate alle donne.

E in questo senso, al di là del diritto alla disconnessione, serve davvero un cambio di orientamento culturale e di decostruzione di ruoli sociali stereotipati e, ormai, obsoleti.


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