For a Human-Centered AI

Dall’hotspot alla strada. Storia di due donne comoriane

23 Marzo 2018

Ultima puntata della rubrica di Osvaldo Costantini sul governo europeo della migrazione

Questa ultima tappa del percorso fin qui intrapreso apre una riflessione più generale sui fenomeni sinora descritti che troverà spazio nel prossimo articolo dedicato alle conclusioni articolate attraverso riferimenti e sguardi disciplinari diversi.
La storia qui narrata non si basa su una testimonianza diretta raccolta tra i migranti di Ventimiglia, ma tratta un episodio raccontatomi da attivisti del progetto S.T.A.M.P. (Sostegno ai Transitanti Accoglienza Migranti e Profughi).

Nel mese di Aprile del 2017, STAMP si trova a Taranto per un monitoraggio sulle pratiche dell’hotspot, in collaborazione con il collettivo locale “Campagna Welcome Taranto”. Una delle pratiche su cui si è concentrato il progetto è quella del “non-entra”: si tratta di una piccola scritta a penna fatta dalla polizia locale sul foglio notizie prodotto dall’Ufficio immigrazione al momento dell’arrivo all’hotspot. Questo piccolo marchio indica che il soggetto in questione non ha accesso all’hotspot. Esso viene applicato ad alcune categorie: le persone che dovrebbero lasciare il territorio entro 7 giorni perché oggetto di un provvedimento di respingimento differito oppure perché in attesa di trasferimento in un CPR (Centri Permanenti per il Rimpatrio); o, ancora, per chi ha perso il diritto all’accoglienza in seguito all’allontanamento dal centro in cui era in attesa dell’esito della propria richiesta di asilo o per coloro che non sono intenzionati a effettuarla.

Uno dei casi raccolti dagli attivisti e dalle attiviste nel corso del loro presidio alla Stazione di Taranto risulta paradigmatico delle dinamiche che si attivano nei casi del non entra. Due donne delle Isole Comore – un piccolo arcipelago del complesso del Madagascar, popolato nel VI secolo da popolazioni Bantu, colonizzato dai francesi nell’800 e divenuto indipendente negli anni Settanta – si erano rivolte alle attiviste del banchetto informativo di STAMP per esporre il loro personale problema. Le due donne erano state catturate a Ventimiglia, da dove intendevano raggiungere un parente di una delle due in Francia. Non è chiaro, però, a causa della mancanza di una lingua comune tra loro e le attiviste, se la cattura fosse avvenuta in un tentativo di attraversamento del confine o in una retata della polizia sul territorio cittadino. In ogni caso le due donne erano state trasferite all’hotspot di Taranto per l’identificazione. A Taranto l’ufficio immigrazione aveva prodotto il foglio notizie con l’appunto a penna “non entra” a cui era stato aggiunto un secondo foglio con il seguente testo rigorosamente in italiano:

“La persona in oggetto indicata è invitata a presentarsi presso la questura di Bologna – Ufficio Immigrazione, in data xx/04/2017, per regolarizzare la propria posizione sul Territorio nazionale in relazione alla richiesta di protezione internazionale formalizzata nella suddetta questura”.

La somma dei due fogli e della retata di Ventimiglia, con successiva deportazione verso Taranto, illumina esattamente quel meccanismo di produzione di vulnerabilità che abbiamo più volte descritto: da un lato, un foglio impedisce l’ingresso all’hotspot e suggerisce la necessità di recarsi a Bologna per completare la richiesta di asilo; dall’altro la libera circolazione sul territorio italiano ed europeo viene di fatto proibita attraverso l’applicazione di operazioni di polizia che oltrepassano il normale ordinamento giuridico. Ricordiamo che essa non è in discussione per i richiedenti asilo, a prescindere dal fatto che il paese di competenza della propria richiesta di asilo resti il primo paese di approdo.

In altre parole: il richiedente asilo deve restare confinato dove il governo europeo delle migrazioni gli ha detto di stare: ogni tentativo di autodeterminazione è bloccato.

Le due donne sono state condotte dalle Forze dell’Ordine a Taranto dove però non possono entrare nell’hotspot e non hanno un luogo dove dormire, restando così costrette di fatto a recarsi a Bologna dove il documento in questione le invita a recarsi. A Bologna le attenderebbe un centro di accoglienza, magari un CAS in aperta campagna, ma bisogna arrivarci e le due donne non hanno i soldi per pagare il biglietto del treno. A Taranto è venerdì, l’appuntamento alla questura di Bologna è per il successivo lunedì. Dove dormiranno e come andranno a Bologna le due donne diventa la principale preoccupazione sia loro che delle attiviste. Varie telefonate rendono consapevoli della difficoltà di trovare loro un posto per la notte, sino a quando una associazione locale offre la disponibilità per farle stare al chiuso la notte, sebbene senza letto e senza coperte. Il momento di entusiasmo si spezza qualche ora dopo, quando le attiviste perdono di vista le due donne comoriane per ritrovarle poi in compagnia in compagnia di un gruppo di uomini neri all’ingresso di una chiesa abbandonata… Più che un sospetto, una certezza che gela l’entusiasmo e rivela un complesso di fattori che finisce per produrre sfruttabilità.

La vicenda narrata mostra un altro aspetto di quei meccanismi che abbiamo osservato nel corso di queste puntate: il diritto parallelo usato per i migranti, fatto di deportazioni e produzione di vulnerabilità, si dispiega, in questo caso, nell’applicazione di altre forme di sfruttamento, attraverso il ricatto lavorativo da parte dalla criminalità locale e migrante. Ancora una volta, occorre osservare questi meccanismi, solo apparentemente marginali, in quanto dispositivi di quelle pratiche centrali per la nostra vita sociale ed economica. Così come il lavoro a basso costo dei braccianti stranieri nelle campagne del Sud è ciò che permette la produzione di beni alimentari a basso costo, poi smerciati nei nostri supermercati, anche la prostituzione femminile diventa uno strumento economico vantaggioso e redditizio, che investe varie sfere significative, ad es. la produzione di sostegno economico alle famiglie nei paesi d’origine attraverso le rimesse inviate in Africa, che in alcuni paesi corrispondono a un valore economico superiore al prodotto nazionale e agli aiuti internazionali.

Ancora una volta Ventimiglia si conferma essere un punto d’osservazione privilegiato per decifrare i meccanismi costitutivi dell’Europa materiale, con i suoi rapporti di interdipendenza economica e umanitaria. Uno spazio dove i rapporti di forza, sulla base delle differenze di classe o biologiche, si mostrano in tutte le loro contraddizioni. È proprio nei territori a statuto d’eccezione, dove le forme di vita sono estremizzate, che la produzione di figure ricattabili alimenta il benessere delle fasce avvantaggiate della popolazione.

Il caso narrato è stato pubblicato nel dossier prodotto dal progetto STAMP in collaborazione con “Un ponte per…”.


La RUBRICA “Il governo europeo della migrazione” è a cura di OSVALDO COSTANTINI, associate researcher presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler, impegnato nelle linee di ricerca sugli stili di vita e i conflitti. Nell’ambito di questo interesse si muove a cavallo tra le pubblicazioni scientifiche e gli interventi pubblici sulla stampa, soprattutto in relazione a quegli aspetti delle #migrazioni maggiormente legati agli immaginari, ai desideri, e alle connesse frustrazioni e disillusioni che muovono le azioni di questi nuovi “dannati della terra”.

GLI ARTICOLI PRECEDENTI:
Storie di marginalità (indotta)
Ventimiglia tra accoglienza ufficiale e percorsi informali
Frontiere terrene, mondi extraterreni
Le Alpi Marittime
Emisfero Hotspot
Il governo europeo della migrazione


Autore/i