Il futuro dell’UE tra cultura e sostenibilità
Qual è il futuro dell'Europa, così come si va delineando oltre le secche della pandemia e fra le pieghe di Next generation EU, altrimenti detto Recovery Fund? Un racconto a due voci tra Luigi Crema e Flavia Barca
Due sono le parole che spiccano sulle altre: cultura e sostenibilità. Se ne è parlato nel corso di un webinar organizzato dal Centro di documentazione europea, da Europe Direct Trentino e dal Servizio pianificazione strategica e programmazione europea, assieme a due ospiti d’eccezione: Luigi Crema, responsabile dell’unità ARES della Fondazione Bruno Kessler, esperto di sistemi energetici e fonti rinnovabili, e Flavia Barca, esperta di industrie culturali e creative, membro del Comitato permanente di promozione del turismo in Italia e del Consiglio superiore del cinema e dell’audiovideo presso il Ministero dei beni culturali e del turismo.
Un racconto a due voci delle esperienze di due protagonisti della ricerca, da cui è emersa con forza la convinzione che i cambiamenti non rinunciabili a cui l’Europa deve prepararsi investono in pari misura la sfera antropologica e tecnologica: da un lato la cultura, dunque, in tutti i suoi aspetti, dall’altro la transizione energetica e digitale, per fronteggiare i cambiamenti climatici e avviare un percorso di autentica sostenibilità, che tenga nella giusta considerazione le legittime esigenze di benessere e sviluppo ma senza sacrificare ad esse il futuro delle nuove generazioni.
L’evento si è aperto con i saluti e gli interventi introduttivi di Boglarka Fenyvesi-Kiss e della dirigente del Servizio pianificazione strategica e programmazione europea Nicoletta Clauser, che hanno brevemente illustrato gli orientamenti della Provincia sul versante UE ed i servizi offerti nelle diverse articolazioni provinciali, dal Centro di documentazione europea del Trentino a Europe Direct agli uffici di Bruxelles condivisi con gli altri membri dell’Euregio.
Si è entrati poi nel vivo della discussione con Flavia Barca, che ha ricordato come la tecnologia in sé non sia mai “neutra”, ed è qui che il fattore umano svolge il suo ruolo prezioso. Un paio di esempi: nel 2014 Amazon ha dovuto abbandonare un sistema di assunzione basato su algoritmi perché ha scoperto che privilegiava candidati maschi. Per quale motivo? Perché l’algoritmo “leggeva” l’assenza dal lavoro del personale femminile a causa della maternità come uno svantaggio, e ciò influiva sul giudizio finale. Altro esempio, che riguarda un software di riconoscimento facciale: funzionava meglio con i maschi bianchi, molto meno con le donne nere. Ciò era dovuto non al razzismo del sistema, ovviamente, ma a come il software era stato istruito, cioè utilizzando in primo luogo i volti dei programmatori, prevalentemente uomini bianchi. Il fattore umano, culturale in senso lato, in casi come questi, deve intervenire per correggere gli “errori”, i pregiudizi, le false credenze che le macchine si formano nel corso dei loro processi di apprendimento. Naturalmente di innovazione l’Europa ha bisogno, per fronteggiare i problemi che ha di fronte, fra cui: la perdita progressiva della posizione di leadership mondiale, il calo demografico e la solitudine sempre più accentuata delle persone (una famiglia su tre è composta da una sola persona), la rottura del patto generazionale, con conseguente crescita dell’individualismo, la sfiducia nella politica.
Perché la cultura potrebbe avere un ruolo importante in questo quadro? Perché, seguendo il modello proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Layen, la cultura è il vero fattore di promozione del cambiamento. I Fondi europei Next Generation riservano infatti un ruolo importante alla cultura, su temi anche “trasversali” che spaziano dalla fruibilità digitale alla rigenerazione di borghi e periferie, all’interazione fra scuola, università, lavoro e così via. Più in generale, però, la cultura, sulla base di quanto già previsto nel rapporto Bruntland (che nell’87 introdusse il concetto di sviluppo sostenibile) fornisce un nuovo paradigma, e determina i modi in cui l’uomo plasma il territorio, assegna valore alle risorse, influenza lo sviluppo locale. La cultura crea uno “spazio di senso”, che è anche lo spazio della collaborazione, della condivisione, dell’incontro e della coesistenza fra differenze. Valori che sono alla base dell’idea stessa di sostenibilità (che, non dimentichiamolo, ha una proiezione intergenerazionale).
Il tema della sostenibilità è stato ripreso da Luigi Crema. Entrato nelle agende ONU nel 1992, il concetto di sviluppo sostenibile fa riferimento al soddisfacimento dei bisogni esistenti senza pregiudicare l’esistenza delle generazioni future. L’Agenda 2030 della UE prende in considerazione molte sfaccettature dello sviluppo sostenibile: economico, ambientale, sociale. Una misura della sostenibilità è l’impronta ecologica, indicatore che misura quanto consumi ogni persona, così come ogni paese, rispetto alle risorse planetarie, trasformando questo valore in ettari pro capite di terreno. Globalmente ogni cittadino potrebbe disporre di 1,7 ettari pro capite (in termini di energia, legname, cibo e quant’altro consumati). Ma negli Usa la media è di 5 ettari pro capite, 2,6 Italia, 2,2 Cina e così via. Da cosa deriva questa impronta ecologica in eccesso? Dall’uso fuori misura dei combustibili fossili, nonché dell’acqua, delle foreste e delle altre risorse finite. Nel futuro, il consumo di combustibili fossili è destinato a calare. Ciò non solo per il suo impatto sui cambiamenti climatici, a causa dell’effetto serra. L’inquinamento da emissioni causa 4,5 milioni di morti premature all’anno (in Italia 56.000 decessi). L’impatto economico negativo dell’inquinamento del resto è pari al 3,3% dei Pil mondiale circa. Nel frattempo gli impatti dei cambiamenti climatici sono già oggi evidenti, ad esempio sulle aree montane, con lo scioglimento dei ghiacciai, i problemi causati al settore idroelettrico, la distruzione di ecosistemi, gli impatti negativi sul turismo e così via. L’ultimo rapporto della IPCC, l’Agenzia intergovernativa sul clima delle Nazioni Unite, identifica rischi nelle zone montane molto seri, fra cui la diminuzione del 50% della disponibilità di acqua nei prossimi 10-15 anni. Ma non possiamo ridurre radicalmente il consumo di energia senza causare un contraccolpo fatale all’economia. Quindi dobbiamo cambiare i modelli di consumo e di produzione energetica.
Il piano del Green Deal europeo rappresenta la tabella di marcia per rendere sostenibile l’economica UE e tocca temi molto concreti, dalla mobilità all’energia, dall’inquinamento alla filiera agroalimentare. Il quadro che si sta costruendo è dunque quello di una transizione profonda, che comporterà nuovi modi di produrre energia, trasportarla, utilizzarla. Ma, di nuovo, il fattore umano e culturale è determinante. C’è bisogno ad esempio di mediatori di comunità, che favoriscano l’adozione, anche su piccola scala, di misure di mitigazione e di resilienza, anche nelle zone montane. Spesso, del resto, le piccole comunità sono state in grado di costruire un modello efficace sul piano economico, con un costo dell’energia mantenuto invariato sul lungo periodo e un impatto ecologico decrescente. Le iniziative di queste comunità hanno attirato aziende e personale qualificato, che hanno generato a loro volta nuovi servizi e altra attività economica, in un circolo virtuoso che alla fine è arrivato alle università e ai centri di ricerca. In pochi anni realtà destinate a ridursi se non a estinguersi si sono trasformate in centri capaci di generare valore, sociale e umano. L’innovazione sociale, in definitiva, è stata determinante. Ed è l’innovazione a cui deve guardare anche il Trentino del futuro.
Comunicato stampa Provincia Autonoma di Trento