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Le relazioni scientifiche si nutrono di umanità | Massimo Rospocher | Mobility Stories

3 Ottobre 2019

L'esperienza di mobilità del ricercatore dell'Istituto Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler, in Australia per lavorare alla traduzione inglese del suo libro

Inghilterra, Canada, Francia, Stati Uniti, Australia. Numerose esperienze all’estero, l’ultima grazie al Mobility Program della Fondazione Bruno Kessler che gli ha consentito di lavorare alla traduzione in lingua inglese del suo Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, libro edito da Il Mulino che in Italia ha avuto un notevole successo non solo tra gli addetti ai lavori.

Massimo Rospocher, ricercatore dell’Istituto Storico Italo-Germanico di FBK, ha vissuto quest’anno la sua prima esperienza di Mobility. Ancora una volta, come gli era capitato in passato, ha trascorso un periodo di studio in Australia, terra in cui “rimane forte l’interesse e la tradizione per lo studio delle discipline storiche e gli studi europei” ci conferma, e a cui è legato anche per motivi familiari.

“È stata la mia prima partecipazione, seppur breve, al programma di Mobility della Fondazione – spiega il ricercatore – e devo dire che è una bella opportunità che ci viene offerta. Nelle humanities esistono diverse borse all’esterno, finanziate da varie istituzioni, ma sono ovviamente molto competitive. Noi abbiamo la fortuna di lavorare in un’istituzione che mette a disposizione la possibilità di andare a fare ricerca e lavorare per un periodo in un centro a nostra scelta. Una grande opportunità”.

Di cosa ti sei occupato durante il tuo mobility?
“Sono partito con l’obiettivo di lavorare alla versione in lingua inglese del mio libro e soprattutto preparare un book proposal da proporre a una grande University Press americana. Il processo per arrivarci è abbastanza elaborato. Le University press americane sono molto selettive e molto caute soprattutto con le opere tradotte, per le quali a volte richiedono una vera e propria riscrittura del libro.
Allo stesso modo, fondamentale è arrivare ad elaborare un book proposal che accompagna il libro, deve essere costruito in maniera il più possibile accattivante. Esiste una vera e propria arte per scrivere bene queste tipologie di testi. Il periodo in Australia mi è servito sia per sistemare e rivedere un paio di capitoli del libro sia per costruire il proposal in un contesto anglofono e con gente abituata a scrivere questo tipo di elaborati. Farlo dalla sede di Santa Croce non sarebbe stata la stessa cosa”.

L’Australia
“Si, sono tornato in Australia, più precisamente a Melbourne, presso il dipartimento di storia dell’università. Ci ero già stato qualche anno fa grazie ad una loro fellowship, con molti dei colleghi di quel dipartimento in questi anni abbiamo collaborato a progetti più ampi o comunque siamo rimasti in contatto.
L’Australia, anche per motivi di migrazione, ha una tradizione di studi ed interesse per la storia e la cultura italiana molto forte. Mentre i dipartimenti di italian studies chiudono gradualmente un po’ in tutto il mondo, loro sono tra i pochi Paesi in cui i dipartimenti di Italian Studies continuano a vivere e ad essere finanziati, anche da donors privati e fondazioni bancarie. 
L’università di Melbourne in particolare ha una grande tradizione di studi europei e di italianistica, e può vantare un dipartimento di storia davvero autorevole, soprattutto nei temi oggetto del mio studio, la storia della propaganda, dei media, della stampa. Moltissimi dei ricercatori e degli studiosi che ci lavorano sono tra i massimi esperti in questi ambiti.
Avevo necessità di confrontarmi con colleghi di altissimo livello, di consultare biblioteche e letteratura in inglese e di utilizzare agevolmente strumenti concreti. E Melbourne da questo punto di vista è straordinaria”.

Massimo Rospocher durante la conferenza pubblica che ha tenuto durante il periodo di mobility in Australia

Oltre al lavoro sul tuo libro, sei stato coinvolto anche in altre attività?
“Il periodo è stato breve e molto finalizzato a quello che era il mio obiettivo di Mobility. Ho tenuto una conferenza pubblica con il dipartimento di storia durante il quale ho approfondito il ruolo della piazza come spazio politico nell’Italia del Rinascimento, un periodo che portò una grande vitalità degli spazi nel dibattito pubblico, in termini di propaganda, diffusione di idee”.

A che punto è la traduzione?
Ci sto ancora lavorando ma sono ottimista. Ci sono già un paio di grandi case editrici interessate, una in particolare. Spero a breve di riuscire a concludere la traduzione definitiva dei primi due capitoli e il proposal.
Dopodichè mi attende un lavoro di quasi totale riscrittura. Soprattutto nel mondo editoriale anglofono, infatti, i volumi sono meno pesanti dei tomi accademici storici italiani o germanici, e quindi sono spesso più agili. Al momento ho una riscrittura di tutto il manoscritto, ma dovrò lavorare per ridurre e raggiungere gli standard richiesti dall’editore.
Il libro infatti era pensato per disegnare l’immagine pubblica di Papa Giulio II in Europa, mentre  l’editore mi chiede – quasi paradossalmente – di restringere il campo e concentrarmi solo sull’Italia, lasciando solo sullo sfondo lo sguardo europeo. È più interessato ad approfondire meglio e di più l’impatto e la dinamica concreta che questo papa ebbe sulla società. La pubblicazione comunque è prevista per il 2020”.

Per concludere, come giudichi l’esperienza del mobility?
È un’esperienza che senz’altro mi sento di consigliare ai colleghi,  un piccolo privilegio che la Fondazione ci concede.
Se dovessi utilizzarlo in futuro lo farei soprattutto nella fase di costruzione di un progetto: nella fase progettuale secondo me è utilissimo, perché ti consente di staccare dalla routine quotidiana e dalle dinamiche legate alla vita quotidiana dell’istituto che impegnano gran parte del nostro tempo.
Probabilmente rispetto a ingegneri e tecnologi, per noi umanisti portare un riscontro diretto in Fondazione può essere un processo più lento e da costruire con un po’ più di pazienza e lavoro anche al rientro, ma c’è comunque un ritorno per FBK nel medio e lungo periodo, se non nell’immediato. Anche la pubblicazione del mio libro, nel mio piccolo, spero abbia ricadute positive.
Ad ogni modo, è comunque un’occasione per avviare nuovi rapporti o, come nel mio caso, per riconsolidare relazioni e che si mantengono via remoto perché si lavora insieme su progetti di ricerca internazionali.
Tutti noi andiamo a convegni, partecipiamo a seminari, ci sentiamo via skype, però vivere quotidianamente un periodo insieme ai colleghi è diverso. In un mondo iperconnesso il mobility serve anche a instaurare relazioni umane più vere e profonde, fatte di scambi informali e diretti. Anche le relazioni scientifiche si nutrono di umanità”.

 

*nell’immagine di copertina, la sede della Facoltà di Arte dell’Università di Melbourne (© The University of Melbourne)


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