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L’impatto della riduzione dell’orario di lavoro settimanale

7 Settembre 2022

Lavorare meno per lavorare tutti? Lo slogan è ormai superato. Occorre ripensare al lavoro concentrandosi sulla produttività, il benessere e la conciliazione lavoro-vita privata del lavoratore.

Molte sono le cose che sono cambiate, per non tornare come prima, dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19. Si pensava durasse una manciata di giorni, all’inizio è stato quasi un diversivo, per quanto spaventoso, mentre due anni dopo non ne siamo ancora del tutto usciti.

Quando i datori di lavoro hanno cominciato a chiedere ai loro dipendenti di lavorare da casa non tutti ne sono stati felici: molti proprio non ci si vedevano a lavorare al tavolo della cucina, con i figli a casa e una casa magari nemmeno troppo spaziosa, o comunque senza i colleghi con cui confrontarsi, prendere un caffè, senza la stampante, la wifi super potente dell’ufficio, la sedia ergonomica. Dopo alcuni mesi, al rientro più o meno percentualizzato nella sede di lavoro, i lavoratori si sono divisi tra quelli entusiasti del ritorno alla semi-normalità e altri che al solo pensiero di tornare in presenza storcevano il naso. Mentre i primi avevano sofferto la solitudine, la mancanza di stimolo a prepararsi al mattino per uscire di casa ma anche le inevitabili complicazioni di un lavoro interamente digitale (call infinite, wifi che non reggevano, orari lavorativi che sfumavano pericolosamente nel tempo libero, ansia del dimostrare che “si stava effettivamente lavorando”), i secondi avevano invece scoperto il magico mondo del lavoro da remoto, smart-working o come lo si voglia chiamare: impagabile conciliazione delle incombenze lavorative con quelle domestiche, più tempo passato con i propri cari, ottimizzazione dei tempi “morti” di viaggio e pausa pranzo; e, perché no, anche la possibilità di non vedere ogni giorno quel collega non troppo simpatico, di concentrarsi nella solitudine del proprio studio, di indossare abiti confortevoli invece di completi ingessati.

E così, parallelamente al rientro in ufficio, lavoratori, datori di lavoro e governi hanno iniziato a interrogarsi su quanto di quella forzata esperienza di lavoro da remoto valesse la pena mantenere e, aprendo una visione più ampia, di come ripensare il mondo dell’impiego nell’ottica di una maggiore soddisfazione e benessere del singolo, riaprendo e riaccendendo così anche il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro, di cui si discute in realtà da ben prima del covid. 

Il dibattito in materia infatti non è certo cosa nuova: dal dopoguerra a oggi, le ore di lavoro annuali per lavoratore sono scese in maniera significativa in quasi tutti i Paesi Ocse, organizzazione che raggruppa i 35 Paesi più sviluppati del mondo. Ne è emerso che più un Paese è finanziariamente ricco, meno tendenzialmente si lavora, con la Germania in testa e il Messico come fanalino di coda. Molte sono state anche le riforme che si sono alternate nel corso degli anni Novanta, dal cui esame parte la ricerca di IRVAPP (Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche di FBK) i cui risultati sono raccolti nel paper “The employment effects of working time reduction: sector-level evidence from European reforms” scritto dal ricercatore Alessandro Tondini unitamente all’economista Ocse Andrea Garnero e all’economista della Paris School of Economics Cyprien Batut. Lo studio ha preso in esame le riforme attuate in Francia (1998 – 2000, riduzione orario di lavoro a 35 h/sett), Portogallo (1996, riduzione orario di lavoro da 44 a 40 h/sett), Italia (1997, riduzione orario di lavoro da 48 a 40 h/sett ma la riforma fu poco sentita perché la maggior parte dei contratti collettivi erano già tarati su 40 h/sett), Slovenia (2002, da 42 a 40 h/sett) e Belgio (2001, riduzione orario lavorativo a 38 h/sett) cercando di capire cos’era successo nei settori maggiormente interessati dai provvedimenti: ne è emerso che, a fronte della diminuzione delle ore lavorative settimanali, non si è verificato un aumento dei posti di lavoro disponibili, come millantava invece lo slogan caro agli anni Sessanta “lavorare meno per lavorare tutti” (work-sharing). Quello che invece è aumentato è il salario, nel senso che si lavora meno a parità di stipendio, mentre sulla questione della produttività, ovvero se un lavoratore produce di più quando lavora meno, non ci sono dati scientifici certi e misurabili e quindi risulta difficile trarre conclusioni definitive. 

Con grande probabilità i lavoratori interessati dalle riforme di cui sopra hanno comunque riscontrato una maggiore disposizione di tempo libero e di conciliazione lavoro – vita privata e forse anche la salute, in generale, ne ha tratto beneficio (basti pensare alle malattie stress-correlate o ai problemi posturali causati dalle tante ore trascorse seduti, in piedi o ad eseguire movimenti ripetitivi). Queste, tuttavia, sono conseguenze difficilmente misurabili ma che possono comunque far concludere che, dal punto di vista del lavoratore, le misure che introducono una riduzione di orario lavorativo siano innegabilmente vantaggiose.

Bene dunque che il dibattito in campo si sia rinfocolato dopo l’esperienza dell’isolamento pandemico forzato, ma lo stesso necessita di vertere su altre questioni rispetto a quelle che stavano alla base delle riforme europee degli anni Novanta del secolo scorso: bisogna spostare il focus sull’andamento della produttività, sul benessere del lavoratore, sulle ricadute sulla salute del singolo – che influiscono poi sui sistemi sanitari nazionali – e sulla conciliazione tra lavoro e vita privata; bisogna chiedersi se abbia più senso ridurre il numero di ore oppure il numero di giorni lavorativi settimanali (diverso è lavorare un’ora in meno al giorno piuttosto che un intero giorno in meno a settimana). Il dibattito, dunque, si è spostato dall’aumento dell’occupazione a quello della produttività, ma rimane ancora aperto e in continuo divenire. Non resta che sperimentare.


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