L’uroboro dell’epidemia: regolarità e unicità di un fenomeno ogni volta nuovo
Per il centro di ricerca Health Emergencies la parola scelta per la serie FBK Dictionary è epidemia, termine dal quale deriva pandemia, forse il più significativo degli ultimi anni.
Coronavirus, Elezioni USA, Classroom, Weschool, nuovo Dpcm. Nel 2020 queste sono state le cinque parole più cercate dagli italiani su Google. Quattro su cinque sono legate alla pandemia da Covid-19 che ha sconvolto il pianeta in quell’anno e la prima, in particolare, si è incasellata in una precisa cassetta della nostra memoria, per restarci. Ma cos’è un’epidemia? In cosa differisce da una pandemia? Come nasce, cresce e si espande? Come viene affrontata? E perché si ripresenta ciclicamente?
Eterni ritorni
Per prima cosa, partiamo dall’ultima domanda: perché le pandemie si ripetono ciclicamente? Come ci racconta anche Giorgio Guzzetta nel suo spettacolo Pandemie, la responsabilità è dei mutamenti dei virus. I virus sono entità biologiche molto particolari: non hanno un’esistenza autonoma e svolgono le loro funzioni vitali solo quando ospiti di un altro corpo. A buon diritto, possono essere definiti i principali agenti patogeni responsabili delle pandemie: rispetto ai batteri (comunque responsabili, come per esempio avvenne con la peste), hanno mediamente una trasmissibilità molto più alta. Ma soprattutto, mutano costantemente e questo rende probabile, nel tempo, che riescano a circolare nelle popolazioni umane, per esempio dopo essere stati per molto tempo esclusivamente animali. Così, un evento percepito come disruptive dalle persone comuni, per uno scienziato che si occupa di epidemie è un evento statisticamente atteso, che “prima o poi” deve capitare: febbre tifoide di Atene, Morbo di Giustiniano, Peste Nera, Influenza Spagnola e COVID-19 sono frutto di una concatenazione di eventi casuali che portano un agente patogeno a diventare pandemico.
Osservando il corso della storia, si nota quindi che le pandemie sono un fatto storico ricorrente e si presentano periodicamente nella società, un po’ come accade con i terremoti. Con il “progredire del progresso”, in un mondo sempre più globalizzato e dagli ecosistemi sempre più mutevoli, eventi come le pandemie diventeranno sempre più frequenti. Sembra un paradosso, considerando come con il potere della scienza siamo sempre più in grado di manipolare l’ambiente: eppure, come nel caso del surriscaldamento globale, talvolta ci sfuggono le conseguenze delle nostre azioni e, senza saperlo, creiamo inavvertitamente le condizioni favorevoli per un’epidemia.
Darwinismo e volontà di potenza
Il principio della vita è essenzialmente quello di moltiplicare sé stessa: le mutazioni genomiche avvengono casualmente, per errori di trascrizione del genoma o cambiamenti ambientali. Tuttavia, sopravvivono solo le mutazioni che meglio si adattano all’ambiente o che, tutt’al più, sono inutili ma non dannose.
Questo discorso è applicabile anche ai virus: come già detto, essi mutano frequentemente e proliferano quando un cambiamento ne facilita la trasmissibilità (ad esempio, per via aerea). Altre mutazioni possono riguardare la capacità di persistere per un tempo sufficiente in un organismo. Altre ancora permettono al virus mutato di evadere parzialmente le difese immunitarie che gli organismi umani avevano costruito in seguito a precedenti infezioni o a vaccinazione. Ci sono poi mutazioni che riguardano la trasmissibilità del virus.
Ma quando un virus diventa la miccia di un’epidemia? La prima cosa da sapere è che la gran parte dei virus che colpiscono gli esseri umani è di origine zoonotica, ossia animale. Nelle sue costanti mutazioni può succedere che avvenga il “salto di specie”: un virus prima solo animale, dopo una serie di “tentativi ed errori”, diventa pericoloso anche per gli esseri umani. Tuttavia, è bene notare che anche virus che si sono installati da lungo tempo negli esseri umani possono subire mutazioni tali da renderli più virulenti e dannosi per l’organismo (come nel caso dello Zikavirus).
Se il virus riesce a sopravvivere sufficientemente a lungo nell’ospite umano, tanto da infettarlo e proliferare; se la sua trasmissibilità è sufficientemente alta, ovvero se il numero di nuove infezioni causate in media da un individuo infetto (chiamato numero di riproduzione di base, indicato con R0) è superiore a 1; e se ci accorgiamo tardi che il problema che osserviamo è causato proprio dal virus (perché, per esempio, inizialmente asintomatico), o se non lo identifichiamo in tempo come la causa del problema (perché, per esempio, i sintomi sono aspecifici, riconducibili a quelli di altre malattie), ecco che il virus diventa pandemico.
Vediamo quindi come il cammino verso una pandemia passi per vari step: ed è il fatto di poter tracciare questi step che ci consente – e ci ha a volte consentito – di fermare per tempo una pandemia.
È importante notare che per un virus è generalmente sconveniente uccidere il suo ospite, la cui morte è un “effetto collaterale”, dovuto a un eccessivo danneggiamento dell’organismo: ciò potrebbe infatti, prima del decesso, ridurre le sue possibilità di trasmissione, causare risposte immunitarie troppo aggressive, destabilizzare eccessivamente l’ambiente ospite… e se il virus uccide il suo ospite, prima o poi muore anch’esso. Tuttavia, un virus pandemico uccide. In funzione della vita, la vita uccide altra vita; e in virtù di ciò, decreta prima o poi la sua stessa fine. A voler confrontare sistemi microscopici e macroscopici – tanto noti ai mondi della fisica e un po’ meno a quelli della biologia – vi è un’altra specie (quella umana, n.d.r.) che da qualche secolo ha iniziato a impattare in modo sempre più importante su un sistema organico molto più grande, da cui dipende la sua esistenza. In questo caso, l’epilogo non è noto, anche se ci sono alcuni indicatori preoccupanti.
Il caso del virus Nipah: influenza umana sugli ecosistemi
Nel 1998, un numero molto alto di persone iniziò a morire di encefalite nel sud-est asiatico. Un morbo misterioso venne rilevato inizialmente in Malaysia, e alcuni casi furono tracciati anche in Bangladesh, sud della Cina, Indonesia e nel nord dell’Australia. Solo poco più della metà delle persone che contraeva la malattia sopravviveva. Inizialmente si pensò che fossero le zanzare gli agenti di trasmissione, tanto che vennero attuate una serie di misure per tentare di impedire il più possibile il contagio della popolazione. Tuttavia, le morti non diminuivano. Stranamente, notò qualcuno, le comunità musulmane venivano risparmiate dal virus.
Dopo poco più di un anno, un giovane virologo malaysiano, Kaw Bing Chua, poco convinto delle spiegazioni ufficiali, provò senza successo a contattare le autorità locali. Raggiunse allora un centro di studi in Colorado, portandosi dietro un carico piuttosto scottante: alcuni campioni di tessuto infetto. Arrivato negli Stati Uniti, riuscì a identificare l’agente patogeno grazie agli avanzati sistemi di microscopia elettronica del centro. Scoprì quindi una nuova specie di virus, che apparteneva alla stessa famiglia del morbillo: i paramyxovirus, una famiglia che infetta solo i mammiferi, come per esempio i maiali. A posteriori (cosa che non sempre riesce) un team di ricercatori riuscì a ricostruire la storia del “salto di specie”: a Nipah, la città dove la malattia fece la sua comparsa, l’industria della carne di maiale era in grande espansione, a seguito della crescente domanda del mercato cinese. Per far fronte a questa domanda, intere aree di foreste di palma erano state disboscate per far spazio agli allevamenti intensivi. I pipistrelli, che avevano in queste foreste il loro habitat naturale, dovettero trasferirsi nelle tettoie degli allevamenti dei maiali. Qui iniziò un periodo di intenso scambio biologico fra pipistrelli e maiali: di lì a poco, il virus avrebbe fatto il salto di specie dai pipistrelli ai maiali e di lì ai loro allevatori. Non appena l’agente di trasmissione fu reso noto, in Malaysia e altre zone del sud-est asiatico si procedette a una soluzione drastica: migliaia di maiali vennero stipati in profonde buche e uccisi dall’esercito. La pandemia si arrestò di colpo.
Al di là del caso appena descritto, l’intervento sugli ecosistemi non ha come conseguenza logica necessaria lo sviluppo di un virus pandemico. Tuttavia, più gli ecosistemi variano, maggiore variabilità si inserisce nell’ambiente e maggiori sono le possibilità che un virus sviluppi un salto di specie. Questa storia, come qualsiasi epidemia, va considerata sotto la lente del ragionamento statistico, quel tipo di ragionamento che tanto sembra mancare nella vita quotidiana di noi tutti e che invece è fondamentale nel modo di procedere razionale della scienza.
La domanda – e insieme l’ammonimento – che possiamo trarre da questa vicenda è: cosa dobbiamo fare per ridurre le probabilità che un rischio diventi un pericolo?