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Effetti dell’utilizzo dei patti di non concorrenza nel mercato del lavoro italiano

24 Luglio 2023

Lorenzo Luisetto, Doctoral Candidate - Michigan University, ha presentato in FBK-IRVAPP i risultati di uno studio empirico su quadro regolativo, utilizzo, incidenza e contenuto dei patti di non concorrenza nel mercato del lavoro italiano.

Lorenzo Luisetto, attualmente Doctoral Candidate, presso la Michigan University, ospite di FBK-IRVAPP nell’ambito dell’iniziativa “visiting research fellow” , giovedì 13 luglio ha presentato i risultati dello studio empirico “The use of non-compete agreements in the Italian labour market” cui hanno contribuito anche Tito Boeri (Bocconi University, CEPR, IZA e FRDB) e Andrea Garnero (OECD e IZA). Questo lavoro è nato dall’idea iniziale di verificare se i patti di non concorrenza siano ampiamente diffusi solo negli Stati Uniti, dato che il mercato del lavoro americano, a differenza di quello di altri Paesi, tra cui anche l’Italia, è flessibile, dinamico e con turnover elevato, bassa copertura della contrattazione collettiva e prevalenza dell’ ”employment at will”.

Abbiamo fatto alcune domande a Lorenzo Luisetto per capire meglio le caratteristiche e l’utilizzo dei patti di non concorrenza nel mercato del lavoro italiano.

 

  • Cosa sono i patti di non concorrenza?

“I patti di non concorrenza sono delle clausole del contratto di lavoro o degli accordi separati con cui le parti si accordano per fare in modo che il lavoratore, una volta concluso il rapporto di lavoro, non possa competere con l’impresa (ex datore di lavoro) per un certo periodo di tempo.  Nella maggior parte dei paesi OECD questi patti sono legittimi, a certe condizioni, e giustificati dalle esigenze delle imprese di proteggere i segreti industriali. Tuttavia questi patti possono generare delle distorsioni sul mercato del lavoro.
Dal 2014, per esempio, negli Stati Uniti  è emerso che i patti di concorrenza riguardano anche lavoratori con stipendi bassi e non vincolati a segreti industriali.
Questo ha evidenziato il loro utilizzo in modo anticoncorrenziale e per limitare le occupazioni alternative e la concorrenza anche nel mercato dei prodotti.
Negli Stati Uniti sono state introdotte legislazioni variegate per limitare l’utilizzo di questi patti, soprattutto per certe categorie di lavoratori ad esempio quando il salario annuo è sotto una certa soglia.”

 

  • Lo studio empirico presentato cosa ha evidenziato relativamente ai patti di non concorrenza e al loro utilizzo in Italia?

Il patto di non concorrenza non è un fenomeno nuovo, ma si è sempre pensato che fosse ristretto ad alcune tipologie di lavoratori come manager o lavoratori altamente qualificati, che potevano concordare con l’impresa un certo trattamento economico in cambio di alcune restrizioni. Il patto di non concorrenza, in questo caso, rappresenta un accordo tra due parti entrambe interessate e che possono ricavare un vantaggio da questo, perché il lavoratore riesce poi a reimpiegarsi anche in un altro settore ricevendo un certo compenso nel frattempo e l’impresa protegge i suoi interessi legittimi su investimento formativo e segreto industriale, dato che, nel caso in cui si interrompa il contratto di lavoro, il lavoratore non può passare ad un competitor dell’azienda.  Il problema che è emerso negli ultimi anni negli Stati Uniti è che queste clausole spesso vincolano anche lavoratori a basso salario e che non hanno accesso a segreti industriali. Per queste tipologie di lavoratori a differenza degli altri,  le clausole considerate hanno invece un effetto negativo perché limitano la mobilità occupazionale. Questo trend evidenziato negli Stati Uniti si ritrova ora anche nel mercato del lavoro italiano.

Lo studio evidenzia inoltre come spesso i lavoratori siano molto disinformati rispetto alla validità di queste clausole e di conseguenza subiscano un vincolo nella loro mobilità lavorativa. Questo è sicuramente un effetto indotto negativo poiché il mercato del lavoro in Italia è molto rigido e la mobilità occupazionale è già molto bassa.

L’uso dei patti di non concorrenza può cambiare a seconda delle condizioni istituzionali, come ad esempio rispetto a fattori quali:

  • La legislazione di protezione dal licenziamento (EPL)
  • L’alta copertura della contrattazione collettiva
  • La regolazione più dettagliata dei patti di non concorrenza

In Italia c’è una delle legislazioni di protezione dal licenziamento più stringenti dei Paesi OECD – assunzioni, licenziamenti e dimissioni dimezzati rispetto agli Stati Uniti (Bassanini and Garnero, 2013). La contrattazione collettiva copre, almeno sulla carta, tutti i lavoratori, tuttavia troviamo che non gioca un ruolo regolativo nei patti di non concorrenza. La legislazione sui patti di non concorrenza si trova nel codice civile  (ART. 2125 c.c.) e prevede: durata massima di 3 anni per lavoratori ordinari e di 5 anni per i dirigenti e deve essere previsto un compenso specifico per i periodi menzionati.
Per la giurisprudenza il patto è certamente nullo quando manca almeno uno di questi requisiti minimi fissati dalla legge. L’impresa che però utilizza patti illegittimi in Italia non riceve delle sanzioni. Negli Stati Uniti invece c’è solo il “test di ragionevolezza”, non c’è una legislazione federale ma solo statale, a parte in alcuni Stati come in California dove i patti di non concorrenza sono vietati.

In definitiva i risultati principali dello studio sono i seguenti:

  • Il 16% dei lavoratori dipendenti del settore privato in Italia è vincolata da un patto di non concorrenza mentre negli Stati Uniti il 18%
  • In molti casi diverse clausole vengono utilizzate in combinazione tra loro (Ad es. La riservatezza e il fatto che non puoi sollecitare degli ex-clienti)
  • Nella media i patti di non concorrenza sono prevalenti tra lavoratori di sesso maschile di alto profilo che guadagnano più di 2000 euro al mese però i patti di non concorrenza vincolano anche lavoratori che non hanno accesso a segreti industriali.
  • In Italia inoltre non tutti i patti prevedono un corrispettivo e la portata geografica varia spesso in maniera significativa anche se il territorio italiano è quello più diffuso.

Il risultato è che circa l’80% dei patti di non concorrenza sarebbe illegittimo oppure che i lavoratori non ricordano esattamente i contenuti e le clausole dei patti di non concorrenza.”

 

  • Lo studio empirico ha evidenziato come gli accordi di non concorrenza possano generare distorsioni nel mercato del lavoro, limitando quindi la mobilità dei lavoratori. Ci sono delle contromisure a livello di politica economica che possano aiutare a ristabilire un regime di mobilità concorrenziale nel mercato del lavoro?

Ovviamente ci sono molte opzioni di policy disponibili, ad esempio in alcuni stati americani è vietato l’utilizzo di questi patti per i lavoratori il cui salario non supera una certa soglia. Il problema che emerge da questo studio è che, in molti casi, le imprese tendono ad utilizzare questi patti, includendoli nei contratti di lavoro, anche sapendo che sono nulli o illegittimi, perché hanno comunque un effetto sul comportamento del lavoratore.
Diventa quindi importante che i lavoratori siano informati relativamente ai patti e alla loro possibilità di utilizzo e che le imprese siano incentivate ad utilizzare patti legittimi e validi anche giuridicamente. Può essere previsto ad esempio un intervallo temporale prima di poter sottoscrivere i patti da parte del lavoratore, come è stato fatto in Colorado dove bisogna attendere almeno 14 giorni almeno prima della sottoscrizione, per dare al lavoratore il tempo di informarsi riguardo al contenuto del patto di non concorrenza che sottoscrive.
Anche un ragionamento sulle sanzioni in caso di clausole illegittime che rendono i patti non validi potrebbe incentivare le aziende ad un comportamento più adeguato sul mercato del lavoro.

 

  • In definitiva, secondo lei,  questi strumenti adottati dalle aziende rappresentano un limite all’innovazione e alla crescita economica del Paese?

Questo è il primo studio descrittivo che viene fatto in Italia, però è chiaro che, soprattutto in certi settori i lavoratori che si dimettono e che, ad esempio volessero creare una start-up con ex-colleghi, non potrebbero e quindi ci sono effettivamente degli ostacoli anche all’innovazione. Anche una nuova impresa che volesse entrare in un certo settore farebbe fatica anche se avesse disponibilità in termini di risorse economiche, perché non potrebbe assumere forza lavoro qualificata per entrare in concorrenza con altre imprese.
Da un punto di vista sia teorico che pratico, quindi, esiste questo rischio effettivo. Negli Stati Uniti, ad esempio, storicamente si è sempre discusso della differenza  tra le aree geografiche di Boston, quindi del Massachusetts, rispetto alla California, e alcuni hanno sempre sostenuto che il vantaggio competitivo e innovativo di questo Stato fosse  dovuto al fatto che nello Stato della California questi patti di non concorrenza non siano mai stati validi. Quindi un fattore propulsivo della capacità di innovare di questa area è stato rappresentato proprio dal fatto che non si potevano vincolare i lavoratori dipendenti.

 

  • Ci sono differenze con altri Paesi nell’utilizzo di questi strumenti che influiscono sul mercato del lavoro?

Sorprendentemente le tendenze nel mercato del lavoro italiano sono molto simili a quelle degli Stati Uniti, nonostante la differenza istituzionale dei due mercati del lavoro. In Europa ci sono state solo indagini parziali che non ci permettono di fare ancora dei parallelismi tra Paesi, però abbiamo in programma di estendere la nostra indagine ad altri Paesi Europei e di fare altri approfondimenti che ci daranno un quadro complessivo più completo.


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