Intelligenza artificiale e dati sanitari
Domenica 7 aprile sarà celebrata la Giornata mondiale della Salute. Uno dei temi dibattuti in questi anni è l’importanza della diagnosi: secondo un’analisi dell’Università di Baltimora del 2016, solo negli Stati Uniti gli errori medici causano più 250mila morti l’anno su un totale di circa 2,6 milioni di decessi.
Fortunatamente, a fronte di questa vera e propria emergenza sociale, in aiuto degli operatori sanitari è arrivata l’Intelligenza Artificiale che pare essere quasi due volte più accurata dei medici nelle diagnosi. Questo comporta però una serie di problematiche, legate soprattutto alla privacy dei dati. Le soluzioni si orientano all’utilizzo anche dei dati sintetici, che offrono un connubio ottimale per la sanità e la ricerca del futuro. Ma da che punto di vista? Ne abbiamo parlato con il direttore del Centro “Digital Health and Wellbeing” della Fondazione Bruno Kessler, Stefano Forti.
L’utilizzo dell’AI fa sorgere un quesito importante, su cui gli esperti si interrogano da tempo: nei prossimi anni il medico sarà sostituito da questi sistemi (per esempio, il Machine Learning o la Virtual e Augmented Reality)?
«La risposta va contestualizzata», risponde Stefano Forti, che è anche referente per FBK nel Comitato Esecutivo del centro per lo sviluppo della sanità digitale “TrentinoSalute4.0“. «Dipende dal tipo di strumento e dalla destinazione d’uso», specifica.
Ci spieghi meglio.
«Per quanto riguarda l’ambito dei modelli diagnostici e prognostici addestrati sui dati, ad oggi non possiamo prescindere dal fatto che la decisione finale spetti sempre al medico. Il motivo principale è che questi strumenti “vedono” solo una parte del problema. Gli algoritmi fanno bene una singola task (es. dire se un’immagine radiologica sia positiva o negativa), ma non hanno a disposizione una serie di altri dati di contesto (come la storia clinica del paziente), che solo l’operatore sanitario possiede. I radiologi sono stati i primi a sostenere lo sviluppo e la diffusione dell’AI e allo stesso tempo ad avere timore di essere sostituiti da quegli algoritmi. Da qualche anno sono a disposizione algoritmi diagnostici che replicano l’accuratezza diagnostica dei più bravi radiologi. Il modo utile di utilizzarli è come supporto alla decisione del radiologo, che, nel momento della diagnosi, può tenere conto del “suggerimento dell’algoritmo”, ma la contestualizza rispetto alla storia del paziente. Come si può constatare in questi anni, i radiologi non hanno perso lavoro, tutt’altro. Mancano molti radiologi nel sistema sanitario nazionale. Quindi l’integrazione della IA nell’assistenza sanitaria non solo può migliorare i risultati, ma favorisce anche una diagnosi e un trattamento più efficiente e centrato sul paziente, e, tengo a sottolinearlo, supportando le competenze umane e non sostituendole».
Un altro tema importante sui tavoli nazionali è il rapporto tra AI e privacy. Quali sono i rischi e quali le opportunità?
«L’AI Act, documento regolatorio della Unione Europea, è un ottimo punto di riferimento. Le indicazioni generali adesso dovranno essere declinate negli ambiti specifici. Nel settore sanitario esistono molte questioni da affrontare. Sappiamo che gli algoritmi hanno bisogno di dati per essere addestrati. Ma la disponibilità dei dati è purtroppo ancora un problema da risolvere in ambito sanitario. Lo sviluppo di modelli AI non può prescindere dal consenso informato che il paziente deve fornire per consentire l’utilizzo delle informazioni che lo riguardano. Ogni studio che abbia come fine la validazione di efficacia clinica e dei rischi deve prevedere un passaggio dal comitato etico dell’ente sanitario che mette a disposizione dei ricercatori i dati dei propri pazienti. Per questo ad oggi l’attenzione alla privacy e al consenso da parte dei pazienti è giustamente molto alta».
In questo contesto, il consenso dei cittadini e delle cittadine rappresenta una questione fondamentale.
«Il cittadino deve essere informato per quale scopo vengono utilizzati i suoi dati. Ma in realtà non c’è nulla di nuovo: lo stesso principio in ambito sanitario vale già quando si intraprendono le varie sperimentazioni cliniche (per esempio sull’approvazione di nuovi farmaci)».
Si discute molto anche sulla responsabilità del medico quando interviene in suo supporto l’Intelligenza Artificiale.
«Al di là della necessità di certificare questi strumenti come dispositivi medici, l’utilizzo nella pratica clinica è ancora agli albori. Portare “in produzione” un algoritmo diagnostico-predittivo di AI nella pratica clinica implica un approccio di sistema in cui devono essere necessariamente coinvolti vari stakeholder, a partire dai clinici, fino ai vari livelli istituzionali che si occupano degli aspetti socio-economico-organizzativi e di privacy».
Parliamo di soluzioni digitali e di AI che non sono rivolte ai medici, ma coinvolgono direttamente i pazienti. In che ambito sono più utili?
«Le potenzialità sono grandissime, soprattutto nell’ambito della prevenzione. Stiamo già assistendo ad un grande sviluppo di assistenti “virtuali” (chatbot) opportunamente progettati in grado di svolgere una serie di compiti in modo automatizzato. In particolare nella medicina comportamentale sono progettati per fornire ai pazienti capacità e competenze che consentano loro di gestire meglio la propria salute e di prendersi cura di sé. È quello che si definisce l’empowerment dei pazienti. Grazie a questi sistemi, gli operatori sanitari potrebbero affidare agli assistenti virtuali alcuni compiti di tipo educativo e psico-educativo ed guadagnare quindi più tempo da dedicare ad altri aspetti più critici della cura dei propri pazienti. Lo studio di questi interventi digitali comportamentali rientra in un’area scientifica e di innovazione in costante crescita, denominata “terapie digitali”».
A proposito di app e terapie digitali, il paziente-utente italiano è pronto per questa nuova sfida?
«Guardiamoci in giro: chi al giorno d’oggi non possiede uno smartphone? Chi non utilizza le app per gestire ogni aspetto della propria vita, dalla gestione del conto in banca, all’intrattenimento o, come nel caso della piattaforma provinciale TreC+, per la salute? Quindi la risposta è sì, tanto più se all’interno del processo di progettazione e sviluppo di questi interventi digitali si sia tenuto conto degli aspetti di usabilità e di esperienza d’uso. Poi c’è una parte di popolazione che possiede uno smartphone, ma si rifiuta di utilizzare qualsiasi tipo di app e lo usa solo per telefonare. Con quelle persone serve attivare percorsi di sensibilizzazione e corsi sull’importanza dell’utilizzo di questi strumenti per fini sanitari. Se il paziente trova un’utilità nella app allora la userà. Inoltre, se sarà il medico a proporre ai propri pazienti l’uso delle nuove tecnologie, questi avranno più fiducia e inizieranno ad utilizzarle».
E i medici sono pronti?
L’aspetto più importante è far capire al personale del mondo sanitario il potenziale della AI e delle terapie digitali, evidenziando i vantaggi che ne possono derivare per il proprio lavoro. Questa componente educativa dovrebbe essere proposta già all’interno dei corsi di laurea in medicina e delle professioni sanitarie, ma dovrebbe far parte anche dei percorsi formativi dei manager che operano a vario titolo all’interno delle organizzazioni sanitarie, a partire dai direttori generali e direttori sanitari. Il tema centrale è che queste nuove tecnologie hanno un forte impatto a livello organizzativo in quanto non possono essere solo un’“aggiunta” agli attuali processi, ma portano necessariamente a dover ripensare nuovi modelli di erogazione di servizi sanitari».
Il cittadino e la cittadina, quindi, diventano sempre più manager di sé stessi e sempre più consapevoli della gestione della propria salute. Questa è una delle mission di TreC+, una piattaforma digitale attraverso la quale il cittadino può gestire i propri dati ed entrare in rete con il sistema sanitario. Come si sviluppa la piattaforma e in che modo si evolverà il ruolo del cittadino utente/paziente?
«Noi crediamo che il tema della prevenzione (primaria, secondaria o terziaria) sia di fondamentale importanza. Ad oggi il sistema sanitario è molto in affanno rispetto a questi temi. Ci si focalizza sulla cura e, con le risorse che stanno diminuendo, le opportunità di poter fare interventi nel campo della prevenzione, soprattutto per quanto riguarda il benessere mentale, che ha un grandissimo sommerso, oggi sono davvero poche. In Trentino è attiva da diversi anni la piattaforma “TreC+” (che sta per Cartella Clinica del Cittadino) attraverso la quale i cittadini e le cittadine residenti o domiciliati nella Provincia Autonoma di Trento possono ad oggi fruire di un insieme variegato di servizi sanitari online. Si può accedere al proprio Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) per consultare informazioni e documenti che riguardano la propria salute, come i referti, le ricette farmaceutiche e le ricette specialistiche. Si possono prenotare esami e visite, e con la delega, si gestiscono anche tutte le funzioni per le persone care di cui ci si prende cura, come un genitore anziano o i figli minorenni. Nei prossimi anni inoltre attraverso la piattaforma TreC+ verranno erogati servizi di telemedicina».
Su cosa state lavorando in questi mesi?
«Stiamo lavorando sul “terzo strato” della piattaforma TreC+, che riguarda gli assistenti virtuali nell’ambito del benessere mentale e della promozione di sani stili di vita. In particolare, stiamo studiando soluzioni che si rivolgono ai soggetti “a rischio” (es. adulti o bambini in sovrappeso), con interventi che motivino e insegnino al paziente come diventare un “manager” più consapevole e preparato nel gestire al meglio la propria salute».
Da quanti cittadini e cittadine è utilizzata oggi la piattaforma TreC+?
«Più di 270mila utenti della provincia autonoma di Trento, che rappresenta più del 50% della popolazione provinciale. Nella versione app per cellulari e tablet, ne contiamo più di 170 mila».