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LEGGERE HARARI DURANTE LA PANDEMIA

17 Aprile 2020

Per un ricercatore non è facile mantenere la concentrazione di questi tempi. Il problema non è tanto il telelavoro o la rarefazione dei contatti umani. Il punto, piuttosto, è che è difficile impedire alla parte più creativa della propria mente di tornare ossessivamente sull’evento che ha stravolto le vite di tutti da qualche settimana.

D’altra parte, un ricercatore è per antonomasia una persona che ha dedicato la propria vita allo studio. E che cos’altro c’è di più urgente da studiare oggi se non le dimensioni, cause, implicazioni, e il senso stesso dell’epidemia di CoViD-19?

Per un filosofo, in particolare, è affascinante contemplare la quantità di energie che i cervelli più brillanti del mondo stanno profondendo quotidianamente per venire a capo del significato storico dell’esperienza estrema che ci è toccato in sorte di vivere. Quasi tutto è o sembra nuovo in questi giorni e anche ciò che ha una parvenza di familiarità stimola la riflessione con un’intensità senza precedenti.

Le domande che ci facciamo non sono poi così diverse da quelle che si stanno facendo più o meno tutti: che cos’ha di speciale questo virus per essere riuscito nell’impresa di mettere k.o. una dopo l’altra tutte le principali nazioni del mondo? La civiltà moderna è davvero in pericolo? La scienza ci sta forse tradendo nel momento in cui ne avevamo più bisogno? Ha senso mettere a repentaglio la propria vita o quella degli altri per salvaguardare beni non meno importanti della salute come la libertà, la cultura o il benessere economico? E, più in generale, cosa possiamo fare per uscire da questa emergenza sanitaria meglio di come ci siamo entrati?

Usando un lessico filosofico, potremmo descrivere la conversazione globale che sta avendo luogo in questi giorni come il più gigantesco sforzo di sense-making nella storia dell’umanità. Tutti insieme, cioè, stiamo dando un contributo per rendere più comprensibile ciò che sta accadendo attorno a noi.

Qualcuno, è bene precisarlo, arriva più preparato di altri a questo appuntamento con la Storia. Prendiamo per esempio Yuvel Noah Harari, lo storico israeliano autore di Sapiens: da animali a dèi e Homo Deus: breve storia del futuro, che oggi è probabilmente il più popolare autore di grandi narrazioni con orientamento scientifico. Nei suoi due bestseller (tradotti in cinquanta lingue e con venti milioni di copie vendute in tutto il mondo) Harari ha ricostruito l’intera storia della specie umana, non solo descrivendone le principali transizioni (la rivoluzione cognitiva, l’invenzione dell’agricoltura, la nascita degli imperi, la rivoluzione scientifica), ma predicendone anche la probabile fine, o meglio l’obsolescenza e il superamento sotto la spinta delle nuove tecnologie biomediche e informatiche.

Molte persone in ogni angolo del globo sono entrate immediatamente in sintonia con la singolare miscela di urgenza e distacco che si avverte nello stile espositivo di Harari.  Da un lato, infatti, la storia che viene raccontata nei suoi libri non ha in sé nulla di edificante. Guardandoci alle spalle non si intravede infatti né progresso morale né particolari motivi per andare orgogliosi della nostra identità di specie. Anzi, cosa non meno importante, negli eventi narrati un peso enorme viene riservato alla processualità storica anonima che lascia uno spazio insignificante ai destini individuali e all’aspirazione umana alla felicità.

Per altro verso, però, i libri di Harari sono intrisi di uno spirito di avventura intellettuale che finisce spesso per galvanizzare il lettore, ansioso di sapere quali altri colpi di scena ha in serbo l’epopea di Homo sapiens. Se dobbiamo prestare fede a quanto lo storico israeliano ha dichiarato in una recente intervista al «New Yorker», il suo sguardo storico così originale nasce da una visione della condizione umana fortemente influenzata dal buddhismo: «tutto cambia in continuazione, nulla ha un’essenza durevole, nulla appaga veramente».
Il 20 marzo 2020 Harari ha pubblicato un articolo sul «Financial Time» che ha avuto una grande eco internazionale (in Italia è stato tradotto da «Internazionale» col titolo: Il mondo dopo il virus). Significativamente lo storico israeliano, che nel capitolo iniziale di Homo Deus aveva prematuramente rimosso le epidemie dall’agenda delle emergenze che tolgono il sonno all’umanità, ha privilegiato nel suo intervento uno sguardo prospettico rispetto a quello retrospettivo utilizzato nei suoi libri. Si è chiesto, cioè, quali saranno le conseguenze di lungo periodo della crisi che stiamo vivendo e, con un tono preoccupato, ha messo in guardia i suoi lettori anzitutto dal rischio che le misure di emergenza adottate per contrastare il contagio sfocino in un uso indiscriminato delle tecniche di sorveglianza da parte degli Stati e, in seconda battuta, che a livello internazionale prevalga la divisione anziché la solidarietà tra le nazioni.

Ma se la Storia umana è un processo anonimo, amorale e privo di senso e se «Homo sapiens», come si legge in Homo Deus, «è solo un algoritmo obsoleto», su che cosa potranno mai fare leva gli appelli benintenzionati di Harari al senso civico, alla fiducia nella scienza o alla solidarietà globale? A quale risorsa potrà mai attingere la volontà degli individui per contrastare forze storiche che sembrano rispondere a logiche sistemiche ben più poderose dei buoni propositi personali?

Sebbene in uno snodo cruciale del suo ragionamento lo storico israeliano riconosca che «in un momento di crisi, la gente può cambiare improvvisamente atteggiamento», resta comunque difficile capire come possa prodursi una trasformazione radicale delle abitudini e della mentalità delle persone, tanto più quando l’epidemia di CoViD-19 ha dimostrato nei fatti, se ce ne fosse stato bisogno, quanto sia difficile per le persone cambiare stile di vita prima che le circostanze rendano tale cambiamento inevitabile.

La mia impressione è che anche per Harari questa crisi inattesa potrebbe essere l’occasione per avviare un processo di apprendimento. Magari partendo proprio da un altro insegnamento del buddhismo. Mi riferisco a questo. Nella esperienza umana esiste una distinzione fondamentale tra ciò che è e ciò che appare. E a questa distinzione importante ne corrisponde una forse ancora più basilare tra ciò che è veramente importante e ciò che non lo è. La saggezza umana, in fondo, consiste proprio nella capacità di operare simili distinzioni e servirsene nei momenti decisivi dell’esistenza per compiere le scelte giuste. Queste scelte, contrariamente a quanto ha sostenuto Harari in Homo Deus, non sono giuste perché siamo noi a decidere che lo siano. Al contrario, nella loro verità indipendente ci aiutano a orientare le nostre vite senza pretendere da noi l’impossibile, cioè che ci spingiamo oltre la nostra umanità.

È così, a ben vedere, che riscopriamo periodicamente la peculiare potenza della fragilità umana. E non abbiamo bisogno di nuove tecnologie che ci elevino allo status di divinità terrene per fare tesoro di questa lezione.

Siamo fragili, ma non impotenti. Non siamo perfetti, ma la nostra storia può avere un senso indipendente dalle nostre intenzioni. Non saranno mai i meccanismi impersonali a tirarci fuori dai guai. Dobbiamo piuttosto confidare nella capacità di rinunciare ai nostri interessi immediati per beni che davvero meritano la nostra dedizione. Credo siano questi gli insegnamenti principali che possiamo e dobbiamo ricavare dalla crisi globale con cui ci stiamo misurando oggi.


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